Ricordate uSocial, l’azienda che vendeva amici, “fan”, follower etc. in Facebook o Twitter a pochi centesimi l’uno?
Pochi giorni fa è emerso un dato piuttosto allucinante: uSocial ha dichiarato di controllare ben 60 milioni di utenti Facebook, ovverosia un 17% abbondante dell’intera base utente del più famoso social network.
Quel che più interessa, la stessa Facebook, lungi dal bannare l’agenzia e tutti gli utenti che, per un paio di centesimi di euro, si prestano al suo gioco, ha assunto una posizione accomodante: dopo una iniziale notifica di cease & desist, secondo l’articolo linkato, pare si sia arrivati di un accordo fra le parti.
La questione conferma un trend corrosivo in atto da tempo, quello determinato dalla progressiva irrilevanza dei dati contenuti nel sito, e prova che Facebook non può o non vuole far nulla per contrastarlo.
L’inquinamento derivante dalla massa di questi “human bot”, rende irrilevanti le opinioni e le posizioni espresse dagli utenti attivi di Facebook, falsa le già deboli metriche di misurazione delle campagne pubblicitarie o pseudo-pubblicitarie legate al social, ma soprattutto rende la vita difficile a chi voglia utilizzare i dati presenti sul sito per ricostruire abitudini, stili di consumo, preferenze, a vantaggio di vere intenzioni di business.
L’irrilevanza di Facebook è una buona o una cattiva notizia, a seconda del proprio ruolo nella “catena alimentare” della privacy. Di certo una base utente inquinata da una ricca percentuale di “human bot”, non è il miglior asset su cui Facebook può poggiare le sue speranze di profitto.