C’era una volta una schiera di barbuti accademici, scienziati o semplici hobbisti, che diedero vita alla seconda rivoluzione informatica fra la metà e la fine degli anni ’70, acquistando computer venduti in kit di montaggio, personalizzandone le componenti, imparando a decodificare l’output su pannelli a led rossi e a gestire l’input tramite nastri perforati.
Questa ristretta casta sciamanica usava ritrovarsi in incontri fissi per confrontare le proprie scoperte e condividere i propri progetti. La destrezza col saldatore era uno dei prerequisiti fondamentali per appartenere a questa élite, dal momento che gli elaboratori dell’epoca erano tutt’altro che rock-solid. La conoscenza del codice binario rappresentava un altro requisito indispensabile: erano gli uomini a dover parlare il linguaggio delle prime macchine, non viceversa.
Il senso di questa seconda fase dell’epopea informatica fu rappresentato per l’appunto dalla scoperta del computer in chiave hobbistico/domestica – la prima rivoluzione informatica, quella dei mainframe, aveva riguardato solo alcuni settori aziendali e governativi.
In questa nuova puntata della rubrica dedicata alla rievocazione dei primi vagiti dell’industria informatica, parleremo della prima killer application del personal computer: una svolta che in un certo senso apre l’epoca – ben lungi dall’esaurirsi – in cui il software, l’applicazione dell’hardware alla soluzione di un problema specifico, diventa il “centro di gravità” del mondo PC.
Siamo alla fine degli anni ’70: sulle fondamenta di conoscenza costruite dalla ristretta cerchia di proto-informatici, nascono i primi personal computer. Si tratta di strumenti meglio confezionati e di certo più user friendly dei progenitori, grazie all’evoluzione dei sistemi di input ed output e alla disponibilità di strumenti di programmazione intuitivi, come il mitico linguaggio BASIC.
I personal di quell’epoca sono tuttavia ancora “soluzioni in cerca di un problema”: accertatone il potenziale in modo astratto, si usa ancora il computer per il gusto di capirlo, personalizzarlo, modificarlo, programmarlo.
Visicalc (1979), la prima killer application della storia informatica, pone fine alla fase “autoreferenziale” del personal computer, applicandone il potenziale su un problema molto specifico: l’elaborazione di fogli di calcolo, strumenti indispensabili nella pianificazione finanziaria.
Perché proprio i fogli di calcolo? Semplice: si tratta di dati numerici, ordinati in serie molto lunghe. Ciascun dato è collegato con altri dati, sicché un solo errore può pregiudicare la validità di un’intera tabella e, soprattutto, imporne la riscrittura integrale.
Come ricorda Bob Cringely nello straordinario documentario Triumph of the nerds, non solo Visicalc velocizza la compilazione, correzione ed elaborazione di complesse strutture di dati, ma abilita il cosiddetto “what if”: cosa succederebbe se l’anno prossimo dimezzassi i costi di acquisizione delle materie prime? E se bloccassi gli aumenti di stipendio al reparto marketing? Da Visicalc in poi, basta “chiederlo al computer”!
La possibilità di personalizzare le funzioni per ogni singola cella, rende inoltre Visicalc uno strumento impareggiabilmente più potente e flessibile rispetto a programmi dedicati a specifiche funzioni gestionali.
L’effetto di Visicalc sul mercato è dunque dirompente, ed incide drammaticamente sulle vendite di personal computer: schiere di aziende vedono finalmente in questi oggetti stravaganti un’utilità concreta, la soluzione a un problema, l’accelerazione di un processo.
A raccogliere i frutti di questa killer application sono, in misura significativa, anche i produttori di computer: Visicalc debutta nel 1979 su una macchina già molto popolare come l’Apple II, ed ottiene l’effetto di moltiplicarne le vendite, soprattutto presso segmenti di mercato estranei al mondo dei primi smanettoni.
Dan Bricklin e Bob Frankston, ricercatori presso Harvard, rispettivamente ideatore e programmatore di Visicalc, non diventano tuttavia stra-miliardari come molti imprenditori informatici coevi: non provano neppure a brevettare il loro software, lasciando ad aziende come Lotus e Microsoft campo libero per copiare e migliorare l’idea di Visicalc – strano oggi vedere i “copioni” di qualche decennio fa fra le fila dei promotori della brevettabilità del software.
Se non pile di dollari, a Bricklin e Frankston rimane il merito enorme di aver sviluppato quella che molti ritengono la prima applicazione che rendesse un computer degno di essere preso in considerazione da una clientela allargata, facendo la fortuna dell’intera industria informatica.
La lezione di Visicalc mantiene inalterata la sua importanza, specie per quella “fazione ideologica” che – con uguale supponenza ma un po’ meno di competenza rispetto ai graybeards di trent’anni fa – non riesce a concepire un dispositivo elettronico al di fuori delle sue specifiche hardware.