Questa settimana ci discostiamo dalla tradizionale alternanza hardware-software cui ormai, credo, siete abituati. In fondo, se si rischia di finire nella routine è giusto cambiare le carte ogni tanto, no?
E lo facciamo per parlare di un argomento tutto sommato un po’ lontano dalla logica del retrogaming. Oggi proveremo ad analizzare uno dei termini più usati e senz’altro abusati negli ultimi anni nel settore dei videogiochi: “next-gen”.
Anche agli utenti-consumatori non così attenti nelle logiche di mercato, le quali caratterizzano l’industry, sarà capitato di imbattersi in questa parola utilizzata sia dagli addetti ai lavori sia dalle folte schiere di lettori che popola la Rete.
Notizie, anteprime, trailer, forum; in qualsiasi media focalizzato sulla tecnologia ad ampio raggio “next-gen” prima o poi è sempre saltato fuori anche perché il settore dei videogiochi è parte importante dell’entertainment biz mondiale. E quindi non si può non parlarne.
Cercheremo di capire se però il suo utilizzo è fondato ed appropriato o meno.
Questo è uno degli argomenti che ho sempre avuto in mente di trattare ma la cui occasione e forse l’ispirazione è mancata. In una normalissima ed uggiosa giornata di metà novembre proverò a dire la mia.
Prima ancora di far parte della “cricca” di Appunti Digitali e quindi, ovviamente, prima di curare questa rubrica, trovavo curioso vedere come gli utenti iscritti ai portali o ai forum sparsi per il mondo potessero affannarsi nel cercare risposta a quesiti come “ma il gioco X sarà next-gen oppure no?
Se sì lo compro, altrimenti resta sullo scaffale…”.
Lì per lì mi saliva anche il dubbio amletico di non capire bene di cosa si stesse parlando o che qualcun’altro fosse a conoscenza di indiscrezioni a me oscure.
In sé per sé la parola “incriminata” risulta affascinante.
In sole sette lettere vengono condensate le aspettative dei consumatori sempre a caccia dell’ultimo ritrovato hi-tech.
E se ci pensiamo bene trascende l’aspetto videoludico, ma si applica a qualsiasi settore industriale/produttivo; quel che la stampa, da anni, è solita anche chiamare “The Next Big Thing“, riferendosi ad un prodotto od una tecnologia in grado di cambiare radicalmente, stravolgere l’industria stessa.
Nel mondo dei videogiochi, seppur bisbigliato, ristretto alle fiere chiuse agli addetti ai lavori, lo si è sempre utilizzato, in special modo durante gli anni in cui le console effettivamente si avvicendavano a ritmi sostenuti ed i molti competitor di mese in mese provavano ad “alzare l’asticella”, contendendosi lo scettro di piattaforma più performante.
Negli ultimi anni, il termine è stato sdoganato e adottato in tutte le salse. Ma se prima dell’uscita dell’ultima generazione, le enormi aspettative hanno generato un tale hype da alimentare il suo utilizzo ridondante, ora ha veramente senso? Sempre che ne abbia mai avuto ovviamente.
Non mi sono mai tirato indietro nell’esprimere un mio punto di vista e non lo farò neanche in questa sede.
Cominciamo da una semplice analisi semantica. “Next-gen” è il risultato della contrazione di due parole anglosassoni “next” e “generation”.
La traduzione letterale in italiano è, come potete concludere voi stessi, “la prossima/successiva/seguente generazione”, a seconda del significato che si vuole attribuire all’aggettivo “next”.
Se ci riferiamo ad un videogioco, già uscito, di una console non da venire ma già sul mercato magari da anni, mi risulta piuttosto complicato definirlo “next-gen”.
Non è il futuro, perché è qui, tra noi, per quanto possa essere rivoluzionario e questo naturalmente occorrerebbe stabilirlo con un’analisi approfondita su ciascun titolo.
A questo punto però si può obiettare che in realtà, proprio negli ultimi anni, next-gen ha assunto una valenza specifica e che si riferisce in particolar modo alle console dell’ultima generazione.
Prima che Sony, Microsoft e Nintendo uscissero rispettivamente con Xbox 360, PS3 e Wii tutti, da stampa a potenziali acquirenti e gli stessi costruttori si aspettavano davvero grandi cose.
Più uscivano indiscrezioni sulle specifiche tecniche e più si rincorrevano frasi ad effetto come “finalmente avremo il fotorealismo” (una delle grandi buzz word dell’industry, al pari della realtà virtuale degli anni ’90). E come dimenticare poi le dichiarazioni di Kutanagi ed Harrison per cui la PS3 avrebbe consentito, in una logica di calcolo distribuito, di compensare i valori, qualora vi fosse stato bisogno di maggiore potenza di calcolo per un gioco, attingendo alla console di un “vicino” anch’esso collegato in Rete.
Questo grande stacco nella resa dei videogiochi non c’è in realtà mai stato.
In primo luogo perché il Wii, a conti fatti, presenta un hardware tutto sommato modesto rispetto alle controparti, tanto da venir soprannonimato come “un GameCube overclockato”. L’esperienza di gioco è quella che fa la differenza e tramite il WiiMote è riuscito a vendere quasi quanto 360 e PS3 messe insieme.
Ma se con next-gen valutiamo le nude e crude potenzialità della macchina intese come capacità di processare tot poligoni al secondo ed altre operazioni specifiche allora siamo ben lontani da quel che ci aspettava.
Ed il grosso divario non si è visto nemmeno per le controparti Microsoft e Sony un semplice motivo: la potenza è nulla senza controllo. Da sempre, gli sviluppatori necessitano di tempo per impadronirsi della piattaforma su cui operano. Nonostante i devkit rilasciati in anteprima, prima che la console diventi effettivamente commercializzata, nonostante il mare di documentazione, quel che effettivamente è possibile farci girare lo si stabilisce solo con l’esperienza. E l’esperienza richiede tempo.
Tutti si ricorderanno le aspettative riguardo alla PS2 ma al tempo stesso la delusione nel vedere che l’Emotion Engine faticava a dare il meglio di sé ed alcune conversioni iniziali risultarono semplicemente pietose. Con il passare dei mesi, con il know-how e le tecniche di programmazione ad hoc acquisiti i risultati cambiarono logicamente volto, con grossa soddisfazione nostra e di chi ci lavorava.
Ha senso quindi parlare di next-gen? No e non nella misura cui siamo abituati noi.
Ed in definitiva, “chissenefrega” se un gioco può essere catalogato o meno come tale, basta che ci faccia divertire.