Da quando esiste Facebook, la nota schiera di professionisti del marketing, ha preso ad utilizzarlo (dietro pagamento) come spazio gratuito di visibilità per le aziende. Offrire a pagamento servizi basati su uno spazio gratuito (FB) è impresa di per sé piuttosto fantasiosa e dunque meritevole di approfondimento.
Vorrei in questa sede isolare quella che mi pare una distorsione fondamentale del cosiddetto social marketing, partendo da una (banalissima) considerazione: non è sufficiente che un marchio esista perché con questo marchio il pubblico voglia stabilire un legame affettivo.
Cionondimeno, è con questa pia illusione che molte aziende si avvicinano al social networking. Come mai?
Possedere un marchio di forte valore affettivo, è un traguardo molto ambito. Le aziende il cui marchio è avvolto da un alone empatico, si vedono infatti oggetto di una grande attenzione da parte del pubblico ma soprattutto, in proporzione della loro presenza nell’immaginario collettivo, sfuggono al confronto diretto basato sulle feature, riescono ad imporre prezzi più alti, resistono agli attacchi della concorrenza e godono di qualche rendita di posizione in caso di brutte figure.
È chiaro che qualunque azienda vorrebbe avere un marchio del valore di Coca Cola, Apple, Nike, con tanto di fan sfegatati che si tatuano il logo sulla spalla. La domanda è: come ci si arriva? I metodi sono ahimè i soliti: storia, risultati di mercato, pianificazione strategica, comprensione del proprio pubblico, esposizione mediatica. Sembrerà strano, ma non è spontaneo provare simpatia per un computer, sentirsi fighi sfoderando un telefono, associarsi ad un universo simbolico mentre si stappa una bottiglia di birra.
Ai tempi di Facebook tuttavia, c’è chi crede di aver trovato la scorciatoia per l’olimpo: ecco che schiere di neo-autoproclamatisi guru, storditi dallo scoppiettante ottimismo di qualche “testo sacro” di social marketing, propongono alle aziende, con crescente frequenza, pagine/fan page/gruppi/diosacosa su Facebook, come strumento di marketing.
I risultati più curiosi di queste geniali operazioni, li tocchiamo con mano ogni volta che riceviamo richieste di diventare fan delle “Rinomate caramelle Pistolazzi” o amici del pizzicagnolo della periferia di Cerignola. Il che, beninteso, può portare a risultati al cliente numericamente interessanti: così come su Twitter, anche su Facebook c’è modo di rastrellare fan a comando (reclutando agenzie che allegano alla fattura un report sul numero di fan/amici acquisiti, e magari si fanno pagare a cottimo), ossia forzando la logica della popolarità.
Il trucco c’è e si vede: sovvertendo la spontanea dinamica che porta il pubblico ad aggregarsi attorno al brand di successo, rimpiazzandola con una “aggregazione a comando”, si priva di significato la metrica già approssimativa del numero di fan, si consegnano risultati il cui reale spessore è di fatto impalpabile.
Al contrario, le fan page spontanee, in quanto risultato di un processo che parte dal basso, possono fornire spunti ed indicazioni di qualche interesse sul valore di un brand.
Vendere una fan page su FB credendo di costruire reputazione e simpatia, equivale dunque ad invertire – o meglio, a far credere di poter invertire – un rapporto causa/effetto inderogabile. Di conseguenza, acquistarla non significa altro che aggiungere una goccia nell’oceano di irrilevanza che Facebook sta diventando.
Se così non fosse, se si potessero ottenere risultati bypassando il duro lavoro che li rende possibili, per vincere una partita di calcio basterebbe scrivere 4 a 0 sul tabellone.