Spotify è un giovane (e beta) servizio che è entrato nel mercato statunitense dei contenuti in streaming, specializzato nel settore della musica. Il servizio prevede diversi livelli di iscrizione, di cui uno del tutto gratuito e basato sull’advertising.
Dopo l’installazione del software necessario per la fruizione del servizio si ha accesso ad una vasto catalogo che comprende ogni genere e, oltre a poter scegliere tra un nutrito elenco di radio a tema, è possibile cercare all’interno del catalogo, un artista, un album o una singola canzone e ascoltare tutto in alta qualità, quando e quante volte vogliamo.
Non mancano naturalmente le funzionalità in chiave social, che permettono di condividere la propria musica con amici e conoscenti.
Troppo bello per essere vero. Dov’è il rovescio della medaglia? Il servizio non è disponibile per l’Italia e c’è da aspettarsi che non arriverà tanto presto: alla SIAE sono tutti concentrati sui bollini da attaccare sui cd, anche quelli masterizzati.
L’idea di poter fruire di contenuti in streaming è allettante quanto spaventosa. Spotify, così come altri servizi, tra cui il celebre Hulu, che negli usa trasmette in streaming e on demand gran parte della produzione dei grandi network televisivi, stanno ai nostri pc e ai nostri dispositivi, come il cappello a cilindro a un mago, dal quale poter tirar fuori qualsiasi cosa, indipendentemente dalle sue dimensioni. Il problema è che mentre un mago, durante il suo numero, ha il pieno controllo dei suoi strumenti, noi, con l’avanzare della tecnologia, perdiamo sempre più il controllo di ciò che di cui fruiamo, in nome della praticità ma soprattutto dell’economicità.
Il trasporto dei contenuti su canali digitali si sta trasformando in un formidabile strumento di controllo, da YouTube, a Flickr, fino all’App Store.
Se volete musica gratis e legale, nel nostro Paese opera Downlovers, che vive anch’esso di advertising, e permette di scaricare tutta la musica che si vuole gratuitamente, in formato wma e con DRM decisamente restrittivi.
Ovviamente la musica può ancora essere acquistata, su supporti fisici o compressa nei vari store che popolano la rete, finalmente senza protezioni (per ora, ma di questo ne discuteremo nei prossimi giorni), però a questo punto il gesto dell’acquisto sta cambiando significato. Non si pagherà più semplicemente per fruire di un’opera a tempo indeterminato, ma per averne il controllo nel tempo: un piccolo (neanche tanto) prezzo, per ottenere un piccola (neanche tanto) libertà. Quanti saranno disposti a pagare?