Premessa: il post che segue è quello che gli anglosassoni chiamano “rant”, uno sfogo appassionato. L’oggetto è una serie di riflessioni maturate nel corso degli ultimi mesi, che proprio oggi non sono riuscito più a tenermi.
In un certo senso l’essenza del giornalismo è farsi strada a colpi di penna nella complessità, scremare il notiziabile dal non notiziabile, aiutare il lettore a sapere quel che c’è da sapere e a formarsi un’idea sulle questioni più scottanti.
Dalla composizione della prima pagina alla rassegna stampa radiofonica, il lavoro giornalistico è in effetti un lavoro di selezione, dove – almeno, secondo i criteri dei vecchi media in cui gli spazi erano una risorsa scarsa – si butta 90 per tenere 10. Indipendentemente dalle proporzioni, in un quadro mediatico tradizionale, quella descritta dal giornalista, la porzione di fatti quotidiani da lui isolata, finisce per essere la “realtà” per i suoi lettori.
In questa prospettiva, un giornalismo asservito alle logiche del potere, che allontana il riflettore dai punti più scomodi, rappresenta la forma più sottile di dittatura che mente umana abbia mai concepito.
Quando questa logica manipolatoria viene applicata al giornalismo di settore, l’effetto è meno allarmante dal punto di vista sociale ma non meno devastante per la credibilità del medium che la ospita.
Parliamo di pubblicità: sui giornali cartacei non è sufficiente a tirare avanti la baracca, servono i tanto vituperati incentivi; le testate generaliste online strutturate con criteri “vecchio stile” – ossia una redazione degna di questo nome – ugualmente annaspano per far quadrare i conti. La televisione dal canto suo, per restare in piedi, deve azzerare programmi non monetizzabili, valorizzare gli slot riempiendoli di trasmissioni nazional-popolari, estendere gli spazi pubblicitari ben oltre la soglia del fastidio.
Il web 2.0, l’avvento dello “user generated content”, sta risolvendo il problema dei costi della pubblicità alla radice: depennando la voce di costo “acquisto spazio pubblicitario”. Si preferisce – è il lavoro quotidiano di molte agenzie di “nuova generazione” – e non raramente, spingere la pubblicità direttamente nel contenuto, alla faccia del lettore.
Recensioni pagate regalando prodotti, aperitivi marchettari volti ad evangelizzare schiere di blogger a bocca piena, sono ormai una pratica quotidiana. Se una volta le agenzie stilavano rapporti circa il numero di contatti, acquisivano screenshot o facevano fotografie su posizioni tabellari, curavano rassegne stampa etc., oggi non è raro che si sentano chiedere “quanti post mi ha fruttato l’iniziativa?”.
Come si trattasse di “veline” internettare, il benchmark su cui si basa l’autorevolezza di molti dei blogger più in voga è la presenza in occasioni mondane lautamente sponsorizzate e ritrovi in cui si canta l’ormai stucchevole canzone del “web 2.0” come veicolo di libertà e democrazia. Per tutti gli altri, come per le mucche da latte, il valore si misura in parole scritte su prodotti (i superlativi valgono doppio). Quale sia la qualità dell’informazione che può venir fuori da questo processo lo lascio concludere a voi.