Ci sono alcuni concetti che hanno accompagnato la rete fin dalla sua nascita, fin dai periodi più euforici ed anarchici della sua esistenza. Mi riferisco in particolare a due colonne portanti dello spirito dei primi giorni: anonimato e gratuità.
In questo post tralascerò la gratuità – che affronterò a breve – per concentrarmi sulle implicazioni dell’anonimato. Un problema i cui recenti “ambasciatori” (Carlucci in primis), animati da uno spirito perlopiù oscurantista e da una sana ignoranza in materia, contribuiscono a privare della giusta rilevanza, ma che cionondimeno merita grande attenzione.
Da utente della rete prima che da commentatore, vorrei innanzitutto soffermarmi su quelli che mi appaiono come i motivi che tradizionalmente incoraggiano negli utenti la volontà di mantenersi anonimi (ovviamente ogni contributo è benvenuto):
– volontà di non legare il proprio nome a delle opinioni espresse;
– paura di un “grande fratello” che possa carpire e aggregare le informazioni personali, per usi commerciali o fraudolenti;
– a corollario del punto precedente, volontà di non rivelare i propri gusti e le proprie preferenze.
Non nego affatto che si tratti di temi scottanti, che giustamente ispirano prudenza e cautela. Dati personali, pareri, stili di consumo, preferenze partitiche etc. sono dati che per una categoria di soggetti valgono molti soldi e che, almeno in parte, si prestano ad usi penalmente rilevanti.
Dai primi giorni di Internet, dalle prime polemiche dei primi alfieri dell’anonimato, sono tuttavia passati alcuni lustri. Quel che più conta, in questi lustri sono nati Facebook, MySpace, Twitter e una pletora di altri social network. Contenitori guardando ai quali viene da domandarsi cosa sia rimasto dei motivi ispiratori delle prime battaglie per l’anonimato.
Presso questi siti infatti, gli utenti si aprono come mai prima all’attenzione collettiva, non disdegnando finanche la pubblicazione di dettagli personali, situazioni sentimentali, preferenze sessuali condite di dettagli di vario genere, simpatie e antipatie politiche.
Google dal canto suo raccoglie e aggrega dati da ormai 11 anni, con strumenti sempre più pervasivi, che un giorno potrebbero consentirgli di raccontarci cos’è che davvero vogliamo, dalla cena di domani fino alla donna che fa per noi.
Insomma, sembra che davanti alla “grande seduzione” del quarto d’ora di celebrità – che ai tempi della rete diventa un quarto di minuto o meno, milioni di utenti – ciascuno dei quali, interrogato sul tema, si dichiarerebbe forse uno strenuo difensore dell’anonimato – si sono dimostrati più che felici di rinunciare a grosse fette della loro privacy. Torna alla mente la bella conclusione de “L’avvocato del diavolo” in cui John Milton, alias Al Pacino, mormorava sghignazzando “La vanità… è il mio peccato preferito”.
Sorge pertanto il dubbio che nella discrepanza fra la difesa dell’anonimato nelle sedi “canoniche” e la completa rinuncia alla privacy presso i social network – sempre che non si voglia cedere alla tentazione di spiegare tutto con genuina idiozia e fede cieca in vuote “keyword”, come per esempio è divenuto la parola “anonimato” – si nasconda l’essenza del problema, o almeno parte di essa: la possibilità di utilizzare l’anonimato per gestire personalità di comodo da usare a scopi che non si desidera rivelare al pubblico e in contesti limitati.
Detto questo vi lascio con una domanda: quanto vale un’opinione, un giudizio, un parere, sotto il quale che un utente non è disposto a scrivere il suo nome? Quanto vale l’opinione di un commentatore che, potenzialmente, si maschera dietro l’anonimato per nascondere il suo conflitto d’interessi sui temi affrontati, per occultare il fatto che parli su mandato (magari, molto popolare di questi tempi, da marchettaro, in pieno stile “marketing 2.0”)? E quanto vale soprattutto la citazione di un parere dietro al quale non possiamo rintracciare una persona, un percorso di studi, una competenza provata?