Da qualche anno a questa parte, in alcune conferenze in cui la formula “2.0” è regolarmente abusata, vengono sparse folate di entusiasmo sui contenuti generati dagli utenti, sulla nuova democrazia mediatica, sulla possibilità di ciascuno di far arrivare la sua opinione al polo nord e via discorrendo.
Siamo partiti qualche anno fa con i blog e ci troviamo oggi a Twitter, un luogo in cui per far sapere qualcosa al mondo, non c’è neppure bisogno di concentrarsi quel tanto che basta per produrre un post degno di questo nome: bastano 140 caratteri.
Il web che scardina l’autorità dei media tradizionali, il web che mette la casalinga e l’editorialista sullo stesso piano – a patto che la seconda abbia accesso a Internet – il web che trasforma e sublima la democrazia, è una favola che ci sentiamo raccontare da anni, alcuni di noi senza riuscire, nel frattempo, a togliersi qualche punto interrogativo dalla testa.
Per altri, i cantori delle magnifiche sorti e progressive della rivoluzione web, digerati della prima ora, illuministi postdatati, interventi come quello di Andrew Keen a margine della conferenza Next Web 2009 hanno l’effetto di una doccia fredda.
Il web 2.0 “is f-u-c-k-e-d” per usare i suoi termini, gli unici esiti prevedibili della rivoluzione 2.0 sono la rinascita di una forma digitale di fascismo e futilismo “non necessariamente negativa, specialmente per quelli che li hanno amati già la prima volta”.
In estrema sintesi, il web 2.0, oltre a non possedere un modello di business sostenibile (come negarlo?), rappresenta il trionfo dell’individualismo. Un individualismo assunto dalla massa come religione, una massa da cui emergono comunque in pochi – forse non i migliori, di certo i più padroni del mezzo (non oso pensare che significhi padroneggiare 140 caratteri).
Twitter per Keen è l’ultimo “chiodo nella bara del web 2.0”, individualismo nella sua forma più sintetica e apodittica, in mano a inevitabilmente pochi influenti, il cui imporsi in cima all’attenzione di migliaia di visitatori, tratteggia, se non il trionfo della disuguaglianza di cui parla Keen – dato che alla disuguaglianza siamo abituati da circa una ventina di secoli – comunque un suo permanere, in barba alle profezie di gloria e libertà collettiva che ancora vengono strombazzate a destra e a manca.
Anche chi credeva che bastasse sbaraccare qualche redazione giornalistica – operazione quasi compiuta nell’ignorante tripudio dei più – per raggiungere finalmente la libertà d’informazione, farebbe bene a riconsiderare le proprie posizioni. Se c’è un potere a cui preme di controllare l’opinione altrui, basterà dargli tempo di diventare padrone del nuovo mezzo. A quel punto non servirà più la censura: basterà l’irrilevanza a cui la massa dei contenuti online naturalmente tende.
La strutturale polverizzazione della “long tail” farà il resto – notevole a questo riguardo osservare che, in preda all’isteria collettiva, si è passati da un Anderson che profetizzava sommessamente la nascita di guru in settori di ultra-nicchia, a gente che va in giro per conferenze a raccontare di ipotetici blog visitati dal Papa e dal presidente degli Stati Uniti, per dimostrare che con 1.000 pageviews/mese si può diventare ricchi tramite la pubblicità.
Se l’individualismo è il nuovo paradigma per lo sviluppo di contenuti, se pochi continuano ad emergere dalla massa ininfluente proprio come ai “vecchi tempi”, l’altro lato della medaglia, quello della ricerca web tramite cui si accede ai contenuti, soffre dello stesso male.
Nella pagina bianca di un motore di ricerca si riflette l’individuo e, ancor prima che i risultati scelti, le chiavi di ricerca sono lo specchio più fedele di una personalità, compresi i preconcetti che in un modello “pull” potrebbero più facilmente uscire rafforzati che contraddetti – ho affrontato l’argomento in tre precedenti post, contraddistinti da una crescente dose di pessimismo.
L’incontro fra questi due poli promette effetti dirompenti sul rapporto fra uomo e cultura. Potremmo ritrovarci un giorno, a scoprire che nel web 2.0 la ragione è di chi strilla più forte, di chi la spara più grossa, grazie all’intervento moltiplicatore del “gatekeeper 2.0”: quel Google che ha messo al lavoro la supposta intelligenza della massa molto prima che qualcuno ne provasse l’esistenza.