Chi, come me, ha avuto la fortuna di vivere in pieno il boom degli home computer, s’è potuto godere un pezzo di storia videoludica (e non) indimenticabile, che ha regalato vagonate di emozioni, ma anche battaglie accese fra i sostenitori dell’uno o dell’altro sistema, successivamente etichettate come guerre di religione.
C’è poco da fare: il confronto è tipica espressione della nostra natura umana. Che sia un computer, una moto, un’auto, fosse anche un triciclo con le rotelle, alla tentazione di “misurare” l’oggetto acquistato con quello dell’amico o del conoscente non si può che cedere, specialmente a una certa età dove la competizione è all’ordine del giorno.
Su una cosa, però, stranamente si trovava unanime accordo: le eccezionali capacità sonore del Commodore 64…
E non poteva essere altrimenti, in un mondo dominato dal classico cicalino che per tanti anni ha accompagnato anche il PC (che, essendo “professionale”, non poteva integrare sciocchezze come un riproduttore di forme d’onda): le melodie e gli effetti sonori che tirava fuori quel chip che di nome faceva SID (acronimo di Sound Interface Device) hanno stregato milioni di persone.
A guardare oggi le specifiche verrebbe da ridere, ma all’epoca avere tre canali indipendenti e programmabili era roba mai vista, oops, sentita prima. I canali potevano riprodurre quattro forme d’onda diverse (a dente di sega, quadrata, triangolare, e pseudocasuale), e un canale lo si poteva programmare in modo da modularne un altro.
Il chip permetteva inoltre di variare il volume specificando 16 livelli, e possedeva anche filtri passa basso, passa alto e passa banda. In poche parole: un autentico gioiello tecnologico (per l’epoca), e le orecchie, infatti, ringraziavano.
Ringraziavano anche i programmatori e i compositori dell’epoca (che a volte erano la stessa persona) per il pezzo di silicio, ma certamente non la Commodore, che decise di inserire, in quella macchina, un BASIC v2.0 ridotto veramente all’osso, con poche istruzioni e funzioni, di cui assolutamente nessuna dedicata alla gestione della grafica né tanto meno della musica.
La prassi, in questi casi, era sempre la stessa: lavorare a “colpi” di POKE e PEEK, un’istruzione e una funzione con la quale si poteva battere il metallo (metal bashing in gergo), come si diceva all’epoca quando si programmava direttamente l’hardware.
La prima (l’istruzione) consentiva, infatti, di memorizzare un valore in una precisa locazione di memoria, mentre la seconda (la funzione) ne ritornava il valore. Quanto basta, insomma, per dominare l’hardware a nostro piacimento. E per chi non s’accontentava (ed erano in molti) c’era pur sempre l’istruzione SYS, con la quale richiamare una routine in linguaggio macchina per rivoltare l’hardware come un calzino.
Situazione decisamente migliore col Commodore 128, diretto nonché totalmente retrocompatibile successore del 64, che col suo BASIC v7.0 forniva finalmente diverse istruzioni per manipolare la grafica, ma soprattutto l’audio, per il quale ne forniva per ottenere un fine controllo e dare spazio a una veloce sperimentazione. Ma arrivò troppo tardi, col mercato dominato dal 64 che gli lasciò ben poco spazio.
Tornando al SID, la sua versalità non si fermava alla generazione di forme d’onda più o meno programmabili, ma grazie alla possibilità di poter controllare il volume, come precedentemente accennato, alcuni programmatori riuscirono a sfruttare questa caratteristica per usarlo come un DAC a 4 bit (i famosi 16 livelli di cui parlavo prima) e, quindi, riprodurre campioni similmente a quanto avrebbe fatto poi in maniera naturale il Paula dell’Amiga.
Questa tecnica fu impiega in alcuni giochi giustamente entrati nell’olimpo dei capolavori assoluti: Impossible Mission e Ghostbusters tanto per citare i più famosi e stragiocati (avendo regalato tantissime ore liete, ma anche poco spensierate a causa della loro difficoltà).
Venne anche utilizzata in un programma chiamato SAM (acronimo di Software Automatic Mouth), precursore di quel comando SAY che l’AmigaDOS metteva a disposizione nativamente, che aggiungeva un’istruzione al BASIC v.2.0 che permetteva di riprodurre la sintesi vocale (in rigorosissimo accento inglese) delle parole che gli venivano passate.
Nel mio cuore, però, rimarrà sempre caro e fervido il ricordo delle favolose colonne sonore composte da artisti geniali quali Rob Hubbard, che hanno dimostrato come con mezzi limitati era comunque possibile produrre gradevolissime, coinvolgenti e variegate opere che ancora oggi possono essere apprezzate.