Sulla rete da mesi ormai si parla dei problemi pubblicitari di Facebook e, mentre c’è chi continua a strombazzarne, in un clima che riecheggia i toni favoleggianti della new economy, un valore potenziale di 15 miliardi di dollari (circa 1/5 del market cap di Apple per intenderci) in una ipotetica IPO, frequenti critiche colpiscono gli infelici posizionamenti tabellari nel portalone, e la generale scarsa propensione di un utente di Facebook a prestar attenzione ai messaggi pubblicitari.
Nel 2007, mentre l’entusiasmo attorno a FB montava a grandi passi, fra gli entusiasti si alzava un’opinione interessante: il vero potenziale pubblicitario di FB starebbe nella quantità di dati che gli utenti vi inseriscono per descrivere se stessi, le proprie appartenenze religiose e culturali, le proprie preferenze politiche, musicali, gastronomiche etc. etc.
Se la pubblicità è un discorso che cerca di instaurarsi fra chi vende e chi potrebbe voler comprare, se le aziende spendono miliardi per individuare e conoscere il proprio pubblico potenziale e far partire questo discorso, FB è un “game changer” come dicono gli anglosassoni, un elemento che rompe le regole sovvertendo le dinamiche azienda/consumatore.
In FB la voglia di significare, di essere identificabili, unici e riconoscibili, induce milioni di utenti a rivelarsi come mai altrimenti si rivelerebbero ad un’azienda.
Secondo i teorici del Facebook-pensiero, su queste premesse siede il vero potenziale di FB, che un giorno o l’altro, potrebbe creare un database di nomi, volti, preferenze, di valore inestimabile per società che fino ad oggi, per raggiungere la loro clientela, hanno dovuto spesso sparare nel mucchio e/o camminare sul filo della legalità.
La questione solleva due interrogativi: il primo, più immediato e discusso negli ultimi mesi, riguarda il significato della privacy in un luogo in cui sono gli utenti stessi a volersene privare – ivi compresi minorenni; un altro, concernente il benessere finanziario di FB nel medio periodo ovverosia, cosa si può realmente costruire di economicamente rilevante sulla base dei dati accumulati da FB? Quanto valgono in ultima analisi questi dati sotto un profilo meramente commerciale?
Se attorno alla prima domanda ruota il futuro di una generazione che sceglie più o meno consapevolmente di restare “in mutande”, attorno alla seconda ruota il futuro di un’azienda che finora ha mostrato di non possedere un modello di business.
Non so se essere più preoccupato dall’eventualità che FB abbia fatto bene i suoi conti – che quindi il suo ruolo di “Grande Fratello” sia in ultima analisi in grado di pagare le bollette – o piuttosto dalla prospettiva di uno schianto che, pur avvenendo fuori dalla borsa, riporterebbe una malefica ondata di panico nell’economia tecnologica.