Ci dicono che siamo immersi nel web 2.0 e già si parla della prossima “release” improntata sulla semantica. In dieci anni abbiamo visto maturare ed emergere molte tecnologie che hanno cambiato internet fino quasi a far scomparire il concetto di pagina, rendendola multimediale e interattiva tanto da poter usufruire di vere e proprie applicazioni.
Sono fioriti e si sono affermati nuovi modi di comunicare, condividere e tenersi in contatto. Al concetto alla base del social network siamo arrivati partendo da una rete fatta inizialmente da siti web più o meno statici, come piccoli pulpiti in cui ognuno, anche gratuitamente, poteva manifestarsi al mondo.
Tutte le successive evoluzioni sono maturate con l’unico scopo di aumentare la possibilità che qualcuno fruisca dei contenuti che pubblichiamo, così la divulgazione si è trasformata in condivisione. L’ultimo step, votato alle reti sociali ci dà l’ulteriore vantaggio di poter solidificare dei rapporti, creando legami ovunque, con chiunque desideriamo, organizzandoci in gruppi in cui godere e collaborare all’unisono in relazione ad un determinato interesse comune.
Alla luce di ciò, appare incredibile quanto è stato fatto in una decade, ancora di più se lo si paragona alla carta stampata o alla tv. È una rivoluzione dunque? Sì, una rivoluzione mancata, almeno per il momento.
Il web è una complicata realtà fatta di persone, e come tale va analizzato. Per questo a mio avviso il parallelismo più corretto per portare degli esempi va fatto con gli agglomerati urbani, le città. Visto che qualche anno alle spalle il web ce l’ha, è ora che lo si cominci ad analizzare anche da un punto di vista antropologico.
Questo accostamento può sembrare folle e frutto di una mente alienata (ok sì, un po’ alienato forse lo sono, ma datemi la possibilità di spiegare) ma se l’utilizzo di servizi web diventa, sia sempre più frequente, sia sempre più indispensabile nella nostra quotidianità, significa che la rete sta diventando parte integrante della realtà, con sempre nuovi canali che vanno ad aggiungersi a quelli “reali”. Sui marciapiedi camminano le persone, sulla strada le auto e i veicoli commerciali, sulle rotaie i treni, nei doppini in rame e via etere testo, voci, suoni e immagini.
Una volta per prenotare un aereo salivate in macchina e andavate all’agenzia di viaggi più vicina, oggi accendete il pc. La cosa più ovvia da dire è che avete cambiato abitudini, ma potremmo dire ancora più semplicemente che avete cambiato strada.
Le città, ora parlo di quelle che si percorrono (troppo spesso) in automobile, sono così come le vediamo grazie a migliaia di anni di evoluzione e conquiste intellettuali, e si trasformano continuamente mettendo in evidenza la cultura e le necessità di ogni epoca. Le piazze esistono perché era necessario un luogo che potesse contenere tutti, in cui incontrarsi, scambiare merce, organizzarsi e protestare, quindi non sono un’idea scontata e innata (detto questo mette tristezza pensare che oggi si siano evolute in parcheggi). Persino le strade sono un’invenzione.
I primi agglomerati urbani dei primi gruppi sedentari della storia umana non non ne avevano, così gli edifici erano costruiti ammassati uno sull’altro e vi si accedeva quasi sempre dal tetto.
Così come le nostre città anche il web ha una sua struttura, che nonostante quanto fatto fin’ora è estremamente primitiva, il che non è un bene, ma contemporaneamente non è nemmeno un fatto negativo.
In questa estensione della nostra realtà nascono nuovi spazi in cui noi metaforicamente ci muoviamo, dove ancora vige l’anarchia assoluta e a fare la storia sono poche e potenti entità, mentre gli utenti la subiscono.
Qualcuno può obiettare facendomi notare che, mentre anni fa scaricavamo tutto gratuitamente in modo indisturbato, venivamo fregati ogni volta che ci facevamo coraggio e usavamo la carta di credito e “The Anarchist Cookbook” era l’ebook best seller per eccellenza, oggi esistono DRM, milioni di negozi online affidabili, sistemi di pagamento sicuro e una polizia postale ben attrezzata. Se avete pensato questo avete commesso un piccolo errore. Perché non è stata regolamentata la rete, bensì si tratta soltanto di paletti messi dal vecchio mondo per evitare che il nuovo non scombinasse troppo l’ordine costituito fuori dai monitor.
Bene, cosa vuol dire fare ordine nella rete? Significa creare una struttura che concettualmente permetta alle persone di muoversi, incontrarsi, comunicare e scegliere davvero.
Mentre noi utenti vaghiamo ammaliati da un sito all’altro, golosi di sempre nuove possibilità, veniamo in realtà sballottati da un recinto all’altro, fregati da strategie di fidelizzazione con l’effetto trappola. Creiamo un nuovo account in un servizio che sembra interessante e che non abbiamo mai usato, ci piace, lo condividiamo con centinaia di persone con le quali riusciamo ad instaurare un rapporto di una certa intensità. Poi un giorno scopriamo che vorremmo condividere quest’esperienza con altri al di fuori di quel sito, ma il nostro account e tutto quello che abbiamo costruito con esso, non potrà mai uscire da lì.
Forse quello che sto scrivendo risulterà ostico a molti, ma è evidente che qualcuno ce l’ha ben chiaro. Google non ha acquisito Youtube per il gusto di possedere un buco nero dal quale buttare via i soldi guadagnati altrove. Facebook non lavora con perdite mensili nell’ordine dei milioni di dollari senza un buon motivo.
La rete è ancora giovane e non è soltanto terreno di conquista ma anche un enorme laboratorio di idee. L’assoluta mancanza di un’ossatura, una reale struttura che permetta universalmente di interagire e comunicare tra servizi e persone, permette ancora di sperimentare nuovi percorsi evolutivi. Quando il web sarà maturato, proporre e stravolgere sarà via via più difficile.
Proprio le due aziende citate poco sopra stanno promuovendo due approcci che permettano la libera circolazione di account e contatti in una rete universale, scrissi in proposito un altro post. Facebook in sostanza gestisce gli account che possono muoversi in un universo potenzialmente infinito di applicazioni sviluppate e mantenute da terzi. Google ha invece lanciato un social network tramite delle API: in sostanza ogni sito web può integrare il social network di Google, permettendo agli utenti di incontrarsi nei vari siti che lo supportano.
Due approcci diametralmente opposti ma che hanno in comune l’ambizione di creare un’unica immensa rete… privata.
Sareste contenti se le strade della vostra città fossero di proprietà di Google?