Mentre noi qui stiamo a scandalizzarci con le dichiarazioni e le azioni mosse contro la pirateria, da software house, case di produzione cinematografiche e case discografiche. Mentre noi discutiamo del diritto alla copia personale e del diritto di fare quel che vogliamo degli oggetti di nostra legittima proprietà, la guerra ai nostri portafogli viene si espande su un nuovo fronte: la mostruosa e cattiva pratica di rivendere i giochi nel mercato dell’usato.
“Game Stop, il nostro principale cliente, realizza più profitti dalla vendita di giochi usati, rispetto al mercato del nuovo”, questo è l’allarme lanciato da Mike Caps, presidente di Epic Games.
Si dice che negli uffici della Epic siano tutti dei santi e acquistino solamente giochi originali. Il mondo però è pieno di peccatori da redimere, per questo l’industria sta cercando di fermare questo preoccupante e incivile fenomeno.
Così arriveranno contenuti extra, solo per chi acquisterà il gioco nuovo e lo attiverà tramite un codice univoco. Oppure si cercherà di limitare i danni, vendendo porzioni del gioco online, costringendo ogni acquirente dello stesso supporto a ricorrere agli store online.
Nintendo inizierà ad abbinare agli accessori della Wii un codice di 16 caratteri, che renderà questi dispositivi dei semplici soprammobili nel caso venga smarrito, questo per cercare di porre un freno al mercato dell’usato dell’hardware.
Che si parli di produzioni discografiche, cinematografiche o videoludiche siamo sempre lì: non si capisce per quale motivo il consumatore onesto, che paga per usufruire delle opere di cui entra in possesso si ritrovi ad avere meno libertà e meno diritti di chi le sgraffigna.
Nel settore dell’intrattenimento digitale si vogliono sempre più utilizzare tecniche per costringere l’utente finale ad una restrizione della sua libertà, per portare nel mercato consumer formule contrattuali che prima erano conosciute solo nel B2B. Solo che nei contratti di fornitura di prodotti ad alta tecnologia, si stipula prima un contratto, mentre a noi povere pecorelle smarrite, dobbiamo evidentemente aver bisogno di qualcun oche ci imponga la retta via dello spolpamento del nostro portafogli.
In particolar modo, la realtà dell’industria dell’intrattenimento digitale si mette in gioco con investimenti economici sempre maggiori, con tempi di sviluppo e di recupero delle spese importanti. Vista la concorrenza agguerrita nel settore, sia sul lato hardware (le console) e software (i giochi) è normale che qualche dirigente dai nervi un po’ meno saldi si lasci prendere dal panico e ripieghi su idee di questo tipo.
Però spendere 90 euro per un gioco originale, e non poterlo utilizzare sulla mia console modificata (ah, dicono che non vanno toccate vero?) o a casa di amici, o ancora se non ho accesso alla rete per la registrazione online mi sembra francamente una presa in giro. Le console poi cadono, fondono e non amano i liquidi, ricomprando la console dovrò ricomprare tutto il mio parco giochi? Che bella prospettiva.
Io poi, da inguaribile nostalgico di una erta età, guardo la cosa anche da un altro punto di vista. Ho un cassettone pieno di vecchie glorie: un Gameboy grigio, un NES, un SEGA Megadrive e un Philips MSX e tutt’ora ogni tanto escono dall’armadio per regalarmi un quarto d’ora di spasso (a proposito qualcuno sa come aggiustare lo slot delle cartucce del NES che non legge pià le ROM?).
Tutte le limitazioni imposte dai produttori di oggi, come si ripercuoteranno sulla possiblità di giocare ancora con i titoli acquistati tra dieci o vent’anni?
Arriverà mai un tempo in cui le aziende che lavorano in questo settore ammetteranno di perseguire un business impraticabile, decidendo così di cambiarne il modello? Oppure continueranno a spingere in questa strada fino a che i videogiocatori incalliti saranno tenuti ad ammanettarsi alla console, scaricando giochi che funzioneranno con una tariffa di 30 euro all’ora?