Portarsi comodamente dietro documenti, dati e programmi, poterci lavorare ovunque si vada. Un’esigenza comune, a cui si potrebbe dare una risposta ovvia: il portatile. Basta comprarne uno, installarci le applicazioni che servono, e il gioco è fatto.
Benissimo, ma dovrei trascinarmelo sempre dietro e, per quanto la parola sia eloquente, tanto comodo non è di certo, anche prendendo in considerazione l’idea di un piccolo e leggero netbook che va di moda oggi…
Un palmare o uno smartphone sposano sicuramente il concetto di comodità in termini di facilità di trasporto, ma pagano un prezzo troppo elevato alla versalità e praticità (per non parlare del costo d’acquisto) che sono notevolmente più ridotte, senza considerare poi l’hardware limitato e il ridotto parco applicativo.
A questo punto molti avranno pensato alla classica chiavetta USB in cui infilare quanto meno i dati (fino a qualche anno fa questo ruolo lo rivestivano i CD o i DVD riscrivibili). Comodissime (occupano uno spazio irrisorio), pratiche e anche con un ottimo rapporto capacità / prezzo data l’elevata diffusione, ma anche lente e con cicli di scrittura limitati.
Farci girare programmi non è consigliabile per queste ragioni e, tra l’altro, difficilmente le applicazioni si potranno installare su questo supporto e farle girare ovunque si vada. Peggio ancora su qualunque computer e sistema operativo.
Quanta pignoleria: non me ne va bene una! Vero. Verissimo. D’altra parte ogni soluzione presenta pregi, ma anche difetti. Anche qui, come in altri casi e settori della tecnologia, la pietra filosofale non è stata ancora inventata. E il cloud computing non fa certo eccezione…
Con questo termine, che incontriamo spesso negli ultimi tempi, s’intende la possibilità di accedere a servizi (e dati annessi) attraverso internet senza avere idea dell’infrastruttura che li mantiene e li fa funzionare (in buona sostanza “ciò che sta dietro” è ignoto).
Siamo passati dal concetto di programma da far girare localmente sul proprio computer, a quello di servizio accessibile tramite un comunissimo browser (e, quindi, su qualunque altra macchina e s.o.). Infatti questo approccio viene chiamato anche software as a service (SAAS).
E’ così importante conoscere chi e come sta facendo girare i servizi che sto usando? Dove stanno i dati? Quali risorse sto impiegando? Direi di no: l’importante rimane sempre il risultato finale; che poi è ciò che serve effettivamente. Devo sapere, questo sì, se chi mantiene il mio ambiente di lavoro sulle sue macchine garantisce anche l’affidabilità necessaria. Non possiamo certo permetterci di perdere dati o, peggio ancora, documenti importanti né tanto meno “servizio non disponibile” frequenti.
Sembra perfetto, ma… che tipo di servizi girano? In genere è il provider che mette a disposizione la rete di cloud computing a determinarle, dando eventualmente la possibiltà all’utente di installare anche proprio software, sebbene spesso sia soggetto a limitazioni. Si tratta, in ogni caso, di applicazioni web 2.0.
Dunque il parco software è scarno anche rispetto ai palmari precedentemente citati, essendo limitati a tecnologie web, ma si riescono ugualmente a realizzare cose egregie. Non vedremo sicuramente girare Duke Nukem Forever (perché i giochi sono particolarmente esosi in termini di risorse consumate e sono votati sostanzialmente al realtime), ma tante applicazioni utili per il lavoro quotidiano ci sono e, in ogni caso, arriveranno considerate quante multinazionali stanno investendo ingenti risorse su questo giovane mercato.
La parola mercato, poi, non è certo casuale. Infatti l’idea che gravita attorno al cloud computing è quello di far pagare non il software ma il servizio appunto, magari con un canone mensile o annuale, oppure in base alle risorse consumate (spazio, potenza di calcolo, banda; si fornisce un minimo superato il quale si blocca o si limita fortemente il servizio).
Sono tutti fattori che si debbono tenere in debito conto nella valutazione dell’impiego o meno di questo nuovo strumento, ma di certo è affascinante pensare di poter andare dall’altra parte del globo e continuare a lavorare su quello che si stava facendo a casa o a lavoro, senza la necessità di caricarsi qualche chilo di roba o tenere sempre acceso il PC per collegarsi in remoto (e se poi va via la luce?)