Qui di seguito pubblichiamo un contributo del Comitato Nucleare & Ragione, un gruppo di fisici che si sforza di dare un’informazione scientificamente corretta sul tema del nucleare dopo l’incidente di Fukushima. Vale la pena di citare l’obiettivo principale del comitato: promuovere il raggiungimento di “un’equilibrata strategia di approvvigionamento energetico della quale i cittadini siano resi partecipi e consapevoli, mediante la diffusione delle nozioni scientifiche e tecnologiche che stanno alla base delle tecniche di sfruttamento delle diverse fonti di energia”. Auspico che chi vorrà intervenire a commento dei contenuti esposti, lo farà proponendo a supporto delle sue ragioni fonti attendibili e verificabili come hanno fatto e si sforzano di fare gli amici del comitato.
Il terremoto di Tōhoku dell’11 marzo 2011 e l’incidente nucleare di Fukushima
Il complesso nucleare di Fukushima Daiichi, Giappone, gravemente danneggiato dallo tsunami di due anni e mezzo fa, è di nuovo balzato agli onori della cronaca con le storie di una perdita apparentemente massiccia e incontrollabile di acqua pericolosamente contaminata riversatasi nell’Oceano Pacifico. Nel marasma mediatico le notizie tecniche più o meno certe sono state soffocate da spazzatura di vario tipo. Il risultato è che sulla crisi in corso i veri dettagli rimangono sconosciuti ai più, vuoi perché molto vi si ricama sopra vuoi perché la TEPCO, il gestore degli impianti, laddove abbia la situazione sotto controllo, sembra incapace di trasmettere adeguatamente i risultati del proprio operato.
Incapacità di comunicare o no, il quadro è carente e molto è dovuto anche al fatto che alcuni aspetti della crisi di Fukushima sono stati e continuano ad essere sottovalutati dal mainstream, quando non opportunisticamente ignorati. Il terremoto del 11 marzo 2011, al largo di Tōhoku è stato il quarto più grande degli ultimi 100 anni, solo leggermente meno potente rispetto a quello del dicembre 2004 al largo di Sumatra, che ha ucciso un quarto di milione di persone. L’energia sprigionata ammonta a 40 volte quella del terremoto del 1906, che devastò San Francisco. L’intero Giappone si è spostato di più di un metro.
La stragrande maggioranza dei 50 e più reattori nucleari del Giappone non è stata minimamente danneggiata da tale evento. A Fukushima, in tutti i reattori delle due centrali, separate da pochi chilometri, Daiichi (6 reattori) e Daini (4 reattori), sono state completate le procedure di spegnimento automatico, nonostante la sollecitazione dovuta al terremoto avesse superato in effetti i limiti di progettazione per quegli impianti.
Quaranta minuti dopo il terremoto, lo tsunami ha colpito la costa. Mentre l’impianto di Daiichi è stato circondato da un muro di mare e l’acqua ha allagato sia i generatori diesel che i quadri per i sistemi di backup delle batterie, a Daini gli allagamenti hanno avuto, invece, un impatto minore, lasciando i gestori con più opzioni e questi, dopo una breve lotta, hanno raggiunto l’arresto a freddo e messo l’impianto in condizioni di sicurezza [1].
Ricapitolando, il verificarsi del disastro ha richiesto: 1) uno dei più grandi terremoti della storia; 2) reattori situati vicino all’epicentro del terremoto e direttamente esposti all’azione distruttiva del conseguente tsunami; 3) modelli di reattori/impianti datati ed obsoleti, soprattutto per quanto concerne le caratteristiche degli alimentatori ausiliari e dell’edificio di contenimento. Cambiare o eliminare uno solo di questi fattori significa non avere alcuna crisi nucleare a Fukushima.
La realtà è, invece, una catastrofe. Fusione di combustibile radioattivo, rottura del recipiente a pressione di un reattore, altri due che presentano crolli parziali. In tutto tre reattori irrecuperabili, da mantenere in condizioni di sicurezza e smantellare completamente. Ma soprattutto il bilancio mostra: rilasci di isotopi radioattivi in atmosfera, perdite di acqua contaminata, evacuazione forzata di un’area residenziale enorme, restrizioni sulla catena alimentare di un’intera popolazione, nonché due impatti pesantissimi, uno economico sulla sicurezza energetica dell’intero paese e l’altro politico sia a livello nazionale che internazionale.
L’obiettività dei fatti contro l’allarmismo disinformante
Riconoscere la gravità dell’incidente nucleare non deve, tuttavia, comportare una resa di fronte al dilagare di notizie infondate, errate, non verificate, tendenti ad estendere tale gravità se non a trasformare una situazione di per già molto seria in un evento apocalittico. Senza entrare nei dettagli della dinamica incidentale, che, come è normale in questi casi, saranno “stabili” solo nel lungo periodo, i dati ad oggi resi pubblici permettono di delineare alcuni fatti estremamente importanti [2]:
- A seguito dell’incidente nessun operatore della centrale nucleare è stato esposto a livelli di radioattività tali da mettere a rischio la sua vita sul breve periodo e molto probabilmente anche per la restante parte;
- I rischi sanitari, per la popolazione residente nelle zone interessate dalla deposizione del fallout radioattivo con le concentrazioni maggiori, giudicati tali da giustificare un immediato ricorso all’evacuazione con applicazione di tutte le misure restrittive e di sicurezza del caso, nel tempo sono stati monitorati e valutati con studi approfonditi. Lentamente si sta procedendo con la ripopolazione graduale delle zone evacuate;
- I rischi per la popolazione in generale sono stimati tali da poter affermare che molto probabilmente sul lungo periodo, come già si registra sul breve, l’impatto sanitario delle fughe e dei rilasci di isotopi radioattivi sarà minimo, se non al di sotto della soglia di rilevabilità, ovvero indistinguibile da quello atteso dalla radiazione di fondo naturale o da altri agenti;
- Quanto sopra esposto, a maggior ragione, vale per il resto della popolazione mondiale. Quando la discussione verte sul rischio, occorrono numeri, in particolare numeri verificabili, associabili ad unità di misura specifiche e confrontabili: numeri, non aggettivi. Attenzione, però, a non farsi travolgere [3]. Inoltre, con lo svilupparsi delle tecnologie è aumentata la confusione tra rischio e pericolo e laddove si pretende un “rischio nullo”, la discussione è tecnicamente impossibile.
Ci sono poi personalità come Lord Martin Rees, astronomo inglese ed ex Presidente della Royal Society, le quali sostengono che ci preoccupiamo troppo di minacce tutto sommato modeste: schianti di aerei, radiazioni di bassa intensità, sostanze cancerogene nei cibi; allo stesso tempo trascuriamo pericoli ben più gravi che, sebbene abbiano poca probabilità di verificarsi, potrebbero causare uno sconvolgimento planetario: attacchi informatici, bioterrorismo, improvvise carenze di acqua potabile e/o di derrate alimentari, pandemie, ecc [4].
Accade spesso che la percezione del rischio da parte dei cittadini divenga più importante del valore effettivo che al rischio viene dato da chi ne cura i calcoli probabilistici. Risulta facile in questi contesti amplificare per meri interessi economici e/o politici questa percezione distorta, pompando benzina sul fuoco. Questo avviene a scapito di chi quotidianamente si impegna per fare bene il proprio lavoro, nei limiti del possibile, proprio per ridurre tali rischi ed evitare, prevenire e mitigare i pericoli.
La recente fuoriuscita di acqua contaminata dai serbatoi di stoccaggio
Ma torniamo a Fukushima e cerchiamo di mettere un punto fermo anche sulla questione delle perdite di acqua contaminata. Dopo la valanga di comunicati, articoli, smentite e contro-smentite che attraverso i media ha sommerso chi si interessava della questione, finalmente si ha avuto una presa di posizione chiara da parte dell’Autorità per la Regolamentazione Nucleare (NRA) del Giappone.
Alla classificazione INES 3 dell’incidente relativo alle fughe di acqua contenente isotopi radioattivi è stata fatta seguire una pubblicazione di notevole interesse, rilanciata dalla IAEA [5]. In base ai dati esposti circa il 75% del volume delle acque contaminate presenti nei vari segmenti dell’impianto di raffreddamento del reattore, nei serbatoi di stoccaggio e nella condotta di pompaggio sotterranea dell’acqua marina deve la propria contaminazione a radionuclidi beta-emettitori a bassi livelli, Trizio (H-3) e Cesio-137 (Cs-137). I serbatoi di stoccaggio interessati dalle perdite degli ultimi mesi contenevano quindi perlopiù isotopi radioattivi non particolarmente pericolosi e più facilmente trattabili/gestibili (le emissioni beta vengono tipicamente schermate da un foglio di alluminio o materiale equivalente, quelle del Trizio costituiscono un pericolo serio solo in caso di ingestione o inalazione di quantitativi significativi).
Il restante 25% del volume è costituito da acque con più alto livello di contaminazione (concentrazioni di Cs-137 variabili tra 107 e 109 Bq/l) e che si trovano esclusivamente al di sotto dell’edificio del reattore e delle turbine e nella condotta di pompaggio sotterranea. Tali comparti non sono stati interessati da perdite in tempi recenti.
Per quanto riguarda le perdite d’acqua dai serbatoi, la concentrazione dei radionuclidi, misurata dalla TEPCO nelle immediate vicinanze, risulta essere pari a 2000 Bq/l per tutti i beta-emettitori, escluso il Trizio, per il quale si hanno 64000 Bq/l. Ancor più bassa è quella misurata nel tratto di mare antistante la centrale. Le uniche concentrazioni superiori ai limiti di legge sono state rilevate in un’area limitata e sigillata del bacino portuale. Le acque del resto del bacino portuale, come pure le acque prospicienti la centrale, non presentano tracce rilevabili di radionuclidi, se si eccettua un punto di campionamento al di fuori del bacino, ove il 14 agosto scorso era stato rilevato un valore per il Trizio pari a 4.7 Bq/l.
Le acque prospicienti la centrale in un raggio di 60 km sono costantemente monitorate [6] e presentano livelli di Cs-137 generalmente inferiori ai 0.06 Bq/l (un solo punto di misurazione costiero presenta un valore più alto, pari a 0.18 Bq/l), mentre al largo i valori di concentrazione misurati sono generalmente al di sotto del livello naturale di radioattività dell’Oceano Pacifico. Ricapitolando: 1) circa il 75% dell’acqua contaminata presente nelle strutture della centrale nucleare di Fukushima è a basso livello di radioattività; 2) le perdite hanno comportato una contaminazione limitata e gestibile facilmente con opportune precauzioni (metodi noti, testati e provati); 3) non è stato dichiarato alcun rischio sanitario per la popolazione, né per gli operatori in campo.
Certo, rimane da capire quali siano esattamente le cause che hanno determinato le fuoriuscite in questione. Tuttavia, considerato quanto sopra esposto e considerate le azioni che la NRA ha messo ed intende mettere in atto, in qualità di organismo supervisore tecnico della TEPCO, tra le quali il continuo monitoraggio dei livelli di radioattività e il trattamento delle acque contaminate, si stenta a trovare fondamento per l’allarme lanciato da diversi organi di informazione a livello globale.
Non solo nucleare. I problemi derivanti dagli impianti a rischio di incidente rilevante (RIR).
Alziamo ora lo sguardo e cerchiamo una visone d’insieme più ampia. Cosa è successo in tutte quelle zone non interessate dall’evacuazione determinata dal rischio di esposizione alle radiazioni, ma comunque devastate dal terremoto o dallo tsunami o dall’azione combinata di entrambi? Cosa è successo in tutte quelle zone non interessate dall’evacuazione determinata dal rischio di esposizione alle radiazioni, ma comunque devastate dal terremoto o dallo tsunami o dall’azione combinata di entrambi?
Nonostante le migliaia di morti e dispersi, i feriti ed i danni immensi subiti, la vita non si è fermata. Da subito le famiglie hanno iniziato a scavare tra i resti delle loro case crollate. I sopravvissuti, molti dei quali anziani e soggetti deboli, hanno vissuto in rifugi improvvisati in mezzo ai detriti. Sciami di professionisti e volontari hanno lavorato duramente ed alacremente, affiancando i militari: hanno raccolto fango, pulito strade e trasportato detriti in discariche temporanee sette giorni su sette. E tutto questo senza che vi fosse, nella maggior parte dei casi, informazione alcuna relativa ai contaminanti non radioattivi nei fanghi e nella polvere. Chi si è adoperato per sgombrare i detriti il più delle volte indossava solo guanti di cotone, mascherine antismog o anti-influenza (molto diffuse in Giappone, usate anche come forma di cortesia per non trasmettere germi) o nessun dispositivo di protezione. L’accesso agli edifici danneggiati è stato solo parzialmente limitato, anche quando le scosse di assestamento continuavano. È stato possibile guidare e camminare liberamente attraverso le aree industriali danneggiate. Solo poche fabbriche erano transennate, pochi i segnali di “pericolo” [7].
Terremoto e tsunami hanno vanificato molte delle procedure standard utilizzate per valutare e gestire i rischi chimici e proteggere lavoratori e residenti. Etichette e cartelli sono scomparsi. Molto materiale è stato riversato fuori dai contenitori adibiti alla corretta conservazione, intere fabbriche, officine, laboratori e magazzini sono stati distrutti o fortemente danneggiati, con conseguente dispersione di materiale chimico inquinante nelle aree circostanti ed in atmosfera.
Il Giappone è stato oggetto di pesanti critiche per la sua incapacità di tenersi pronto per un disastro nucleare come quello di Fukushima. Alcune delle stesse critiche valgono in senso più ampio. “Il Giappone non aveva alcun piano concreto per la gestione dei rifiuti chimicamente contaminati in caso di disastro, prima che lo tsunami ci colpisse” ha detto Nagahisa Hirayama, ricercatore dell’Università di Kyoto ed esperto di pianificazione per la gestione dei disastri [7].
Questo induce ad una riflessione più profonda: esistono misure concrete, in Giappone come negli altri paesi, che possano essere adottate al fine di assicurare che, anche in eventi di tale portata, residenti e lavoratori delle aree colpite siano protetti dalle minacce degli agenti tossici in generale, non solo radio-tossici?
Non siamo in grado di rispondere, ma ci auguriamo che un’auto-critica “costruttiva”, come quella cui è stata indotta l’industria nucleare, si faccia spazio nell’industria convenzionale e nella gestione della cosa pubblica in generale.
Dura da anni, ad esempio, il dibattito in Italia su adeguamento e protezione anti-sismica degli impianti industriali a rischio di incidente rilevante (RIR) [8].
Intanto, per il 2020 sogniamo una grande rinascita per il paese dove sorge il sole.
Note
[1] Per maggiori dettagli si può consultare:
http://en.wikipedia.org/wiki/2011_T%C5%8Dhoku_earthquake_and_tsunami.
Inoltre, avevamo già curato una breve sintesi in italiano qui:
http://nucleareeragione.org/2012/03/11/fukushima-un-anno-dopo-il-giappone-tra-la-pau/ a partire dalle seguenti fonti:
http://news.nationalgeographic.com/news/energy/2012/03/120309-japan-fukushima…;
http://www.yomiuri.co.jp/dy/;
http://www.iaea.org/newscenter/focus/fukushima/statusreports/fukushima23_02_1….
[2] Fonti:
UNSCEAR. 2012b. Biological mechanisms of radiation actions at low doses, a white paper to guide the Scientific Committee’s future program of work;
WHO. 2013. Health risk assessment from the nuclear accident after the 2011 Great East Japan Earthquake and Tsunami, based on a preliminary dose estimation;
Jerry M. Cuttler, “Commentary on Fukushima and Beneficial Effects of Low Radiation”, Dose-Response (Prepress) Formerly Nonlinearity in Biology, Toxicology, and Medicine – Copyright © 2013 University of Massachusetts.
E per sollevare il morale anche di chi non ha voglia di ingarbugliarsi tra i dati tecnico-scientifici:
http://www.nuclearnews.it/news-2963/fukushima-riaperta-al-pubblico-la-prima-spiaggia/.
[3] Qui abbiamo provato a dare un’idea di cosa significhi farsi prendere in giro dai numeri:
http://nucleareeragione.org/2013/09/18/drowning-by-numbers/.
[4] http://theconversation.com/astronomer-royal-on-science-environment-and-the-future-18162.
[5] http://www.iaea.org/newscenter/news/2013/fukushimaupdate160913.pdf;
http://www.iaea.org/newscenter/news/2013/japan-basic-policy2.html#!.
[6] http://www.iaea.org/newscenter/news/2013/seamonitoring190713.pdf
[7] http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3222972/#r34.
Riguardo l’ammontare dei detriti accumulati esistono varie stime. Utilizzando le simulazioni computerizzate della zona inondata dallo tsunami ed dati sul numero dei nuclei famigliari ivi residenti, Hirayama ha trovato che le “scorie“ potrebbero ammontare a 26.73 milioni di tonnellate.
Qui: http://ajw.asahi.com/article/economy/technology/AJ2011091510544
si parla di 30 milioni di tonnellate di fanghi depositati complessivamente nelle sei prefetture colpite dallo tsunami. Wikipedia [1] riporta 24-25 milioni di tonnellate tra relitti, rottami e detriti vari.
Interessante questa analisi della contaminazione chimica (metalli pesanti in particolare):
http://www.worldscientific.com/doi/pdf/10.1142/S012908351240027X
Immaginiamo ce ne siano moltissime altre, ma esula dallo scopo del presente articolo fornire una bibliografia esaustiva.
[8] In particolare, per gli stabilimenti chimici presenti in aree ad elevata pericolosità sismica l’adeguamento costerebbe di gran lungo meno della riparazione dei danni (umani e materiali) in caso di catastrofe.
http://www.enea.it/it/produzione-scientifica/edizioni-enea/2013/Sicurezza-sismica-impianti-chimici-rischio-incidente-rilevante