Un futuro “monodevice”, un unico dispositivo capace di adattarsi alla gamma più vasta di scenari d’uso, con il cloud ad estendere le possibilità distorage/calcolo locali, non era del tutto peregrino fino a pochi anni fa. Nel 2009 non avrei affatto escluso di vedere entro qualche anno un terminale della dimensione di uno smartphone, che concentrasse capacità sufficienti per un uso in mobilità – compresa telefonia – e che, giunti in ufficio si connettesse a monitor e tastiera per svolgere processi semplici come e-mail, suite office, web browsing, groupware etc.
Attorno a questo “super-smartphone”, il vero centro della propria vita digitale, immaginavo avrebbero ruotato una serie di docking station: un “cradle” dotato di più storage offline o di una CPU desktop per chi per esempio desiderasse più potenza di calcolo per specifici impieghi, una console per giocare o magari una TV per la visualizzazione di contenuti su uno schermo più grande. O un tablet, ricalcando l’idea che ha ispirato Asus per il proprio Padfone – oggetto della presentazione più ilare nella storia dell’ICT.
Questo “super-smartphone” avrebbe concentrato in sé l’identità digitale del proprio utente, mettendolo in condizione di operare in sicurezza – una sola autenticazione, un solo dispositivo autorizzato – in una varietà di contesti.
Non ho bisogno di dilungarmi troppo nella descrizione di questa mancata evoluzione: avete già capito, e poi si tratta di un concept a grandi linee ventilato già nel 2005 da Philip Greenspun.
La storia ha preso un’altra direzione: se l’ancien régime tecnologico vedeva il PC al centro della vita digitale dell’utente, oggi questo centro, almeno in teoria, è divenuto il cloud stesso, punto zero dell’identità dell’utente, attorno al quale ruotano una serie di dispositivi che tramite cloud comunicano e si sincronizzano. In teoria. In pratica comandano ancora i dispositivi, i quali possono tranquillamente vivere senza cloud, ma che sul cloud fanno affidamento per funzioni di sincronizzazione ancora primordiali rispetto ad un ideale scenario multidevice.
È interessante notare che l’approccio “monodevice” avrebbe eliminato il problema di sincronizzazione alla radice: l’unica sincronizzazione necessaria avrebbe riguardato il dispositivo e il cloud, ai fini di backup ed estensione dello storage locale. Si tratta di un problema non da poco che Apple, l’azienda in testa questo approccio multidevice con prodotti “pesanti” in tutti i segmenti, ancora fatica a risolvere: a due anni dal lancio di iPad, il prodotto nel quale Jobs individuò l’inizio dell’epoca post-pc, per condividere nativamente un documento iWork con un Mac via iCloud (non parliamo nemmeno di altri OS) dovremo attendere ancora qualche mese, fino alla release del prossimo venturo Mountain Lion.
Si tratta di un problema che ha a che vedere con limiti imposti all’iPad, di cui abbiamo parlato estesamente qui e qui. Limiti a cui, tuttavia, non è estraneo il problema della GUI: PC in miniatura con input touchscreen se ne vedono dalla fine degli anni ’80 (GridPad, 1989), ma il successo di massa è arrivato con un prodotto che ha adattato all’input un modello d’uso drasticamente semplificato, con importanti tradeoff, tra cui l’impossibilità di manipolare direttamente il file system.
Il problema della GUI rimane centrale, e nel 2012 vede Apple e MS su strade divergenti, la seconda che con Windows 8 tenta di unificare le esperienze d’uso di tablet e PC, rilanciando l’idea di una GUI unitaria su dispositivi diversi. Un passo che potrebbe anche condurre ad una strategia monodevice: dopotutto Microsoft, a differenza di Apple, non fa soldi vendendo hardware.