Negli ultimi giorni Andrew Keen – storico critico del cd. web 2.0 – sta conducendo una vera e propria crociata a favore dell’industria musicale dalle colonne di Techcrunch. Si parte con una imbarazzante intervista a Bram Cohen, il creatore di BitTorrent, letteralmente messo alla berlina, seguita da un’insipida – quanto intervista, non per gli argomenti proposti dall’intervistato – intervista ad un musicista, David Lowery, intitolata “Come Internet sta fottendo i musicisti“. Si noti il riferimento ai musicisti, vera raison d’être del pezzo: delle case discografiche non sarebbe importato un fico secco a nessuno, causa una storica inimicizia dovuta in buona parte all’atteggiamento esclusivamente repressivo adottato da queste ultime a difesa del loro modello di business, contro Internet.
Stendendo un velo pietoso sull’inutile acredine spesa da Keen contro Cohen, reputo interessanti alcuni dei punti sollevati da Lowery. Il quale si definisce in prima istanza un “ex-credente” nella capacità di Internet di disintermediare il mondo della musica, di creare un nuovo modello di remunerazione diretta degli artisti. Una posizione che rende la sua opinione particolarmente rilevante ai fini dell’intervista.
Lowery solleva un punto molto interessante: la distribuzione digitale, Apple in primis, chiede un 30% del valore di ogni traccia venduta, a fronte di nessun investimento su quel sistema creativo di cui un album è solo l’ultimo anello. Laddove, al contrario, le case discografiche usano parte della loro percentuale per alimentare il sistema, fare talent scouting, investire su artisti emergenti etc. In altre parole è merito dell’industria discografica se abbiamo conosciuto i Pink Floyd, gli U2, i Jethro Tull. È merito loro se sono diventati un fenomeno di massa e non sono rimasti a fare concerti nei locali psichedelici di Londra, per le piazze dell’Irlanda o i club di Liverpool.
Un altro elemento fondamentale nella tesi di Lowery è il fatto che il contenuto – quale che esso sia – rappresenta il motivo per cui la gente si connette a Internet. È una questione per nulla nuova – solo su AD se ne parla da anni – ma ancora irrisolta. In soldoni, il problema riguarda tutti quegli operatori posti in vari anelli della filiera distributiva che accumulano danaro dalla semplice intermediazione, senza per l’appunto reinvestire “istituzionalmente” parte dei loro ricavi nell’alimentare la produzione di contenuti.
Parliamo di TLC ma soprattutto di intermediari come iTms, Amazon o Spotify – ma in generale l’elenco si potrebbe allargare a molte altre categorie di produttori a vario titolo “beneficiari dell’esistenza di contenuti” – la cui esistenza è vincolata alla disponibilità di contenuti a cui il pubblico è interessato ad accedere, che tuttavia non contribuiscono al processo creativo, se non appunto per la vendita stessa. Vendita i cui margini sono poi estremamente esigui: parlando di Spotify, Lowery stima che servirebbero oltre 1 milione di riproduzioni al mese affinché un artista possa vivere del suo lavoro alla “minimum wage” americana.
A margine, è interessante notare che, nella prospettiva dello squilibrio delineato, il cd. Web 2.0 rappresenta null’altro che la promessa di autosostentamento del sistema, un sistema che diventa dunque indipendente da soggetti istituzionalmente preposti alla produzione di contenuti – major cinematografiche e discografiche, ma anche editori. Non c’è dunque da stupirsi che tutto il mondo tecnologico – con qualche eccezione – abbia abbracciato incondizionatamente il Web 2.0, e nemmeno del fatto che attorno a questo concetto si sia agglomerata una vera e propria intellighenzia, fra cui quelli che si definivano, e abbiamo spesso in questa sede definito, “digerati”.
Opinioni conclusive? Beh, non ne ho. Perlomeno non di nette e unidirezionali. È mia ferma convinzione che, a fronte di una ineluttabile rivoluzione tecnologica, le case discografiche abbiano storicamente tentato di chiudere la falla con il dito della repressione, che se non li ha salvati dall’inondazione, ha fornito a critici occasionali come il sottoscritto e molto più ai cd. digerati magari a libro paga di qualche operatore o lobby 2.0, ottimi ed abbondanti appigli. Il passaggio da una remunerazione per “possesso” a una per accesso (Spotify) è stata poi fortemente voluta proprio dalle case discografiche, da sempre sponsor di insensati schemi DRM che hanno come presupposto un metodo – le “mancate vendite” – che fa acqua da tutte le parti.
È pur vero che il sistema attuale, come argomenta Lowery, non appare sostenibile e premiante per chi sceglie di dedicarsi alla musica. Dico di più: rende indispensabile una prevalenza assoluta delle logiche del marketing, che vanno generando una pletora di “artisti” usa e getta il cui maggior talento consiste nel far parlare di sé per qualche settimana. Logica pienamente assecondata dalle case discografiche, che in modo totalmente darwiniano vanno imparando a dominare l’online seguendone i tempi brevissimi, mentre con l’altra mano incassano tasse e balzelli (tipo equo compenso) con una logica parassitaria per nulla dissimile a quella di cui accusano l’industria tecnologica.
A rimetterci sono i due estremi della catena dei contenuti, artisti da un lato e utenti dall’altro. I primi a cui resta, salvo poche eccezioni, giusto la possibilità di fare un altro lavoro per sostenere la propria vena creativa. E i secondi, a cui è finalmente riuscita l’impresa di pagare zero o quasi, in cambio tuttavia di qualcosa che vale anche meno.