Dopo avere lungamente parlato di impianti di pirolisi e di gassificazione, ed essendo stato sviluppata soprattutto nei commenti di questi post la discussione sull’impiego di tali impianti per il trattamento dei rifiuti, è opportuno riprendere un argomento già trattato in precedenza, da un punto di vista principalmente delle emissioni, e darne una esposizione più completa in modo da concludere la discussione su questa applicazione, pertanto oggi parleremo di Termovalorizzatori.
PRIMA DELLA TERMOVALORIZZAZIONE – L’INCENERIMENTO DEI RIFIUTI
Al contrario di quanto può essere immediato pensare, il problema dei rifiuti e della loro eliminazione è presente sin dall’antichità, al punto che si trova persino un riferimento nella Bibbia quando Gesù parla della punizione del fuoco eterno, facendo riferimento alla Geenna dove sarebbero stati gettati i peccatori.
La Geenna veniva utilizzata metaforicamente in quanto essa non era altro che il luogo dove le popolazioni locali di Gerusalemme distruggevano i rifiuti con il fuoco, immagine sicuramente toccante e significativa che ben rappresentava il significato dell’ammonimento.
Terminata la parentesi Biblica, appare comunque chiaro come sin dall’antichità si aveva la necessità di affrontare il problema dei rifiuti in quanto il loro semplice accumulo non poteva essere una via accettabile a causa della malsanità che derivava da tali luoghi.
Il processo di incenerimento dei rifiuti, terminata l’epoca della combustione “all’aperto”, è stato applicato all’interno di impianti dedicati a questo scopo, la cui caldaia è progettata in funzione della tipologia di rifiuti che vengono trattati.
La pratica dell’incenerimento produce, a partire dalla combustione ad alta temperatura dei rifiuti, residui solidi (ceneri), gassosi e polveri oltre che una più o meno elevata quantità di calore che, in un impianto di incenerimento propriamente detto, non viene sfruttata.
DALL’INCENERITORE AL TERMOVALORIZZATORE
Il passaggio dall’incenerimento dei rifiuti alla loro termovalorizzazione rappresenta un passo molto breve, che però permette di recuperare l’energia termica (al fine di un suo utilizzo, in genere sotto forma di energia elettrica) che la pratica dell’incenerimento produce.
Un argomento molto spesso discusso è quello sull’opportunità dell’impiego del termine “Termovalorizzare”, in quanto la combustione di una materia di scarto/rifiuto presenta delle problematiche (peraltro analoghe a quelle di qualunque attività di combustione) ambientali che necessitano una specifica trattazione, e che si possa parlare di valorizzazione solo in presenza di riciclaggio completo (cosa d’altra parte non meno discussa), mentre la posizione opposta ritiene che tale indicazione sia corretta in quanto si estrae energia da un prodotto che altrimenti sarebbe stato semplicemente accumulato in siti di stoccaggio, pertanto si “valorizza” tale rifiuto.
Senza volere entrare ulteriormente in tale discussione, che esula dallo scopo del presente e dei successivi post, andiamo ora a vedere come opera tale processo.
Tale recupero di energia è reso possibile attraverso l’impiego di caldaie e turbine analoghe a quelle impiegate negli impianti termoelettrici a vapore, categoria di impianti alla quale i termovalorizzatori appartengono.
Prima di addentrarci (cosa che faremo nei prossimi post) sul funzionamento dei termovalorizzatori, è importante andare ad esaminare “la materia prima” con la quale essi operano, ovvero i rifiuti.
I rifiuti possono essere sostanzialmente di due tipi:
- Rifiuti Solidi Urbani (RSU) – si tratta dei rifiuti più comuni, composti principalmente dai residui domestici e non domestici (purché non pericolosi), oltre che dai residui della pulizia delle strade, delle aree pubbliche e delle aree verdi.
- Rifiuti Speciali – si tratta di rifiuti derivati da una molteplicità di attività, attività industriali, sanitarie, trattamento dei rifiuti (fanghi di depurazione), ecc.
Appare evidente come l’eterogeneità dei rifiuti rappresenti un grosso problema per lo smaltimento mediante termovalorizzazione, pertanto tale processo presenta la migliore resa quando il cosiddetto CDR – Combustibile Derivato dai Rifiuti risulta il più omogeneo possibile per quanto riguarda potere calorifico e combustibilità.
La preparazione di tali rifiuti richiede la preliminare separazione della frazione umida e della frazione non combustibile (vetro e metalli) e successivamente la preparazione di blocchi dimensionalmente omogenei, contenenti principalmente quei materiali non direttamente riciclabili e che altrimenti sarebbero stati smaltiti, ovvero accumulati, in apposite discariche.
Tali blocchi di CDR, conosciuti gergalmente anche come Ecoballe, sono composti in larga parte da materiali plastici termoindurenti (non riciclabili direttamente, al contrario dei materiali termoplastici) ed altri materiali misti (sostanzialmente la Frazione Secca Non Riciclabile), con un contenuto non superiore al 50% di materiali quali plastiche riciclabili (ad esempio il PET – Poli Etilene Tereftalato e simili), materiali compositi plastica/alluminio/cartone (ad esempio il ben noto Tetrapak) ecc.
La normativa regola tale composizione in modo da ridurre al minimo la presenza di sostanze che darebbero luogo a specie inquinanti difficilmente rimovibili medianti impianti di abbattimento degli inquinanti, ma di tutto ciò ne parleremo nei prossimi post.
Rinnovandovi gli auguri per le festività appena terminate, vi invito a seguirci sempre, sempre su AppuntiDigitali, sempre sulla rubrica Energia e Futuro.