Nelle università italiane è quasi un luogo comune: l’istruzione, in Italia, è la migliore. I ricercatori italiani, tutti figli di Fermi, sono i migliori. Per quanto fondate queste affermazioni siano, la musica sta cominciando a cambiare, e non di poco.
Da qualche giorno un articolo uscito sul quotidiano La Repubblica sta facendo il giro di ricercatori italiani in patria e all’estero. L’articolo in questione descrive uno studio fatto dall’economista italiana Cinzia Daraio e dal ricercatore olandese Henk Moed. Questo studio è stato interpretato da molti (e sicuramente da me) come un segnale d’allarme, un’analisi che ci mette di fronte al conto che dobbiamo pagare dopo quasi 30 anni di tagli di fondi, mala gestione e mancanza di supporto.
A partire dagli anni 80 la produzione scientifica (e umanistica, lo studio si riferisce a tutta la ricerca) italiana è, come si suol dire, partita per la tangente, passando da 9721 pubblicazioni nel 1980 fino al boom di 52496 articoli nel 2008. Tutto bene, quindi. In realtà questo risultato è stato ottenuto con il sudore della fronte di moltissimi ricercatori che hanno lavorato nonostante le condizioni lavorative a dir poco sfavorevoli. Chi fa ricerca, in genere, lo fa per passione, non per diventare ricco o famoso (se lo fa, temo abbia sbagliato tutto), quindi difficilmente si fa scoraggiare da un salario poco competitivo o da orari di lavoro molto pesanti. In tutti i campi, però, gli eroi sono rari, e alla lunga questa situazione si paga. Ecco infatti il risultato dell’analisi. Nel 2009 (ultimo anno di cui i dati sono a disposizione) la produzione è per la prima volta dopo 30 anni diminuita, passando a circa 40mila pubblicazioni. Una fluttuazione statistica? Forse. Però secondo me quasto numero va interpretato non solo come indice di produttività, ma va visto nella sua chiave sociale. Perché ci sono meno pubblicazioni?
Il lavoro, pubblicamente accessibile a questo sito, affronta il problema in modo complesso e variegato.
Innanzi tutto bisogna capire perché questo è un problema. In tempo di crisi chiudono tante aziende, perché non può chiudere l’Università? Il problema è che la soluzione alla crisi, la chiave dell’innovazione sociale ed economica di un paese risiede esattamente nelle Università, ed è solo investendo nella ricerca che si può risollverare un Paese. Non sono parole al vento: è provato che la diffusione della cultura e della conoscenza aumentano la consapevolezza dei cittadini e la loro qualità di vita, oltre che a spingere l’economia con l’introduzione di nuove metodologie tecniche e scientifiche e con la nascita di nuove aziende e fabbriche. Nel momento in cui un paese è in crisi, quindi, quando manca lavoro, quando i giovani sono depressi e rassegnati, quando il livello sociale e culturale medio si sta abbassando è il momento giusto, per lo Stato, per investire nella ricerca, per finanziare l’Università e per agevolare i privati che vogliono investire nella ricerca e sviluppo. Non il contrario.
Di fronte alla riforma dell’Università dell’anno scorso, come tutte le riforme del mistero dell’Istruzione a cui ho assistito durante la mia vita (quindi fatte da ministri di tutti i colori), la reazione è sempre la stessa: da un lato chi paga dice che non vuole più pagare, perché i soldi sono investiti male, ci sono troppi baroni, l’Università va riformata ed è inutile investire prima di riformare. Dall’altro gli universitari sostengono che è impossibile riformare senza fondi. Tagliare i finanziamenti non sprona a migliorare, ma congela la situazione attuale, se non la fa peggiorare. D’altro canto pensiamo al nuovo concetto di ricercatore introdotto dalla riforma. Prima il ricercatore era il primo gradino della carriera universitaria, una figura introduttiva, senza obbligo di insegnamento, dedicata puramente alla ricerca. Quello che succedeva è che i professori ordinari non insegnavano più e delegavano ai ricercatori. Gli associati quasi non esistenvano più, merce rara da mettere in uno zoo, mentre i ricercatori tenevano su la baracca quasi a vita, senza prospettive di migliorare la propria carriera. Bene, la riforma dice che il ricercatore ora è un contratto a tempo determinato, non rinnovabile. Si può essere ricercatori di tipo A, cioè si viene assunti per 3 anni con un’unica possibile estensione di altri 2 anni. Dopo 5 anni si può diventare ricercatori di tipo B, per altri 3 anni.
Dopodiché, basta. Buona idea? Secondo me si. 8 anni, dopo dottorato, postdoc e via dicendo sono più che sufficienti. A quel punto uno ha ormai 40 anni o giù di lì, ed è giusto che diventi professore, associato, ordinario e via dicendo, assumento ruoli sempre più organizzativi e manageriali. È normale, naturale e il sistema più efficiente di sfruttare le capacità di una persona. Piccolo problema: non ci sono soldi per assumere come professori tutti questi ricercatori (non che sia facile avere questi contratti, ma va bene così). Quindi, dopo 3 anni di dottorato, dai 2 ai 5 anni di post-doc, 8 anni da ricercatore uno cosa fa? Non chiedetelo a me.
Quando si fanno le riforme, quindi è necessario avere le spalle coperte, altrimenti si rischia solo di peggiorare le cose.
Che impatto ha questo sulla ricerca? La ricerca scientifica, ma non solo scientifica, è uno degli esempi più lampanti di globalizzazione. Ormai è fondamentalmente impossibile fare un lavoro scientifico di valore senza contatti internazionale. Le collaborazioni sono sempre più numerose e sempre più internazionali, è sempre più necessario viaggiare e avere scambi di idee e di persone con le altre nazioni. Risultato difficile da ottenere quando il gruppo di ricercatori italiani non ha soldi per pagare aereo e hotel per tutti in un altro stato. Quando alle riunioni internazionali andiamo a pranzo, è normale vedere ricercatori e professori italiani fare impazzire il cameriere di turno per avere lo scontrino nella forma in cui viene accettato dall’Università per il rimborso.
Per non parlare del fatto che per un’Università lavorare su un esperimento internazionale non è gratuito. Se voglio far parte di un esperimento del Cern, per esempio, devo versare una quota “di iscrizione”, una quota necessaria, se si vuole avere il proprio nome sugli articoli pubblicati. Questo per finanziare le infrastrutture messe a disposizione. Più che il numero di pubblicazioni è da notare quanto i singoli istituti in Italia abbiano ridotto le loro collaborazioni internazionali. La cosa da notare è che questo non vale per i singoli ricercatori. I singoli ricercatori italiani hanno una qualità media della propria produzione scientifica molto alta. Il problema risiede quindi nelle infrastrutture offerte alla ricerca. Ricordiamo infatti che i fondi che l’Italia mette a disposizione per la ricerca sono i più bassi d’Europa. Ma il vero record (in negativo) sono gli investimenti dei privati nella ricerca. Quasi più bassi degli investimenti pubblici.
Da un lato la situazione non sembra così nera. Nonostante la drammaticità dei tagli di fondi e lo scarso interesse della società nei confronti della ricerca, la produzione e la competitività scientifica italiana si è dimostrata al top delle classifiche negli ultimi 30 anni. Un piccolo recesso negli ultimi anni non è forse così spaventoso. Per me, invece, lo è, perché temo che sia soltano la punta dell’iceberg. L’ambiente della ricerca non è un piccolo paradiso in cui tutti si vogliono bene e fanno il loro lavoro solo per la gioia di farlo. È un ambiente molto competitivo, in cui chi ottiene i fondi per portare avanti il proprio progetto vince.
Chi assume le persone migliori vince. Gli altri, restano indietro. È difficile oggigiorno per l’Italia attirare scienziati stranieri: soprattutto per gli stipendi poco competitivi, ma anche per la scarsa diffusione dell’inglese e la diminuizione di contatti internazionali. È anche difficile per un professore ottenere un finanziamento europeo per un progetto: i criteri sono severi, e l’istuto più ricco e più internazionale avrà sempre maggiori possibilità di vincere. Si rischia quindi di finire in un circolo vizioso, che potrebbe far degenerare le cose. Finora la ricerca in Italia si è basata sulla volontà e la passione di quelle persone che hanno continuato a lavorare e dare il massimo in condizioni molto sfavorevoli. Finora è andato bene. Ma credo sia difficile che questo possa durare per sempre.