Mentre le premesse del provvedimento AGCOM iniziano a sfaldarsi, vorrei condividere con voi qualche riflessione sull’intera vicenda. Partendo dal contributo di personaggi che hanno a lungo seguito da vicino la traiettoria del diritto d’autore ai tempi di Internet.
Partiamo da Stefano Quintarelli, uno di quelli che hanno fatto Internet in Italia, che in un pezzo di cui consiglio la lettura integrale intitolato Il mondo nuovo, tratteggia le premesse che rendono ineludibile una revisione dell’attuale disciplina del diritto d’autore e conclude con alcune linee guida molto concrete:
- i beni digitali devono essere ottenibili e fruibili su ogni dispositivo : per evitare abusi e creazione di monopoli se chi fornisce il contenuto è lo stesso soggetto che gestisce la rete di distribuzione o che produce l’hardware
- ogni bene digitale si deve portare dietro la propria licenza d’uso: così si può sapere se è un Creative Commons, o una copia privata di qualcuno o un oggetto venduto da qualcuno o un oggetto nel pubblico dominio, ecc..
Guido Scorza, esperto di diritto legato a questioni online, liquida oggi su Il fatto quotidiano il recente sviluppo della questione con un “molto rumore per nulla”:
è difficile resistere alla tentazione di interrogarsi sul costo sin qui sostenuto per partorire il mini-schema di mini-regolamento: il lavoro degli uffici dell’Autorità, quello di schiere di lobbisti ed avvocati, quello dell’industria e delle associazioni di categoria, le decine di migliaia di euro buttate dalla finestra dalla Siae per acquistare inutili pagine sui giornali e, soprattutto, il nostro tempo, quello dei cittadini che hanno dovuto rimboccarsi le maniche per far sentire la loro voce.
Nelle “inutili pagine sui giornali” cui Scorza fa riferimento compare un appoggio incondizionato della SIAE al provvedimento AGCOM – che, lo ricordiamo, prevedeva procedure di takedown unilaterali al di fuori del parere di un giudice, di qualunque sito o contenuto venisse, ripeto, unilateralmente, reputato lesivo del diritto di qualsivoglia autore. L’appello della SIAE è consultabile qui.
Per inciso fa un certo effetto vedere, fra i sostenitori dell’appello SIAE e quindi della direttiva AGCOM, il nome di Dori Ghezzi, presidente della fondazione Fabrizio De Andrè. Fondazione sul cui sito campeggia la A cerchiata, un simbolo che rispecchia i valori del cantautore genovese certo più di quanto non faccia la SIAE.
La quale, come ricorda sempre Stefano Quintarelli, è stata “smantellata eticamente ed economicamente da chi la gestisce” con una inequivocabile lettera congiunta della FEM – FEDERAZIONE EDITORI MUSICALI, ANEM – ASSOCIAZIONE NAZIONALE EDITORI MUSICALI, FA – FEDERAZIONE AUTORI, in cui fra le altre cose si scrive:
…La SIAE e’ diventata la più costosa tra le società di collecting europee, con un aggio superiore rispetto a tutti i suoi diretti competitor.
A fronte di un maggiore costo per gli autori e gli editori (per tutti, dai più grandi ai più piccoli), vanta la peggiore performance in termini di servizi e una maggiore lentezza nelle ripartizioni. SIAE ha un debito verso gli associati autori e editori che raggiunge cifre da manovra finanziaria, circa 800 milioni di euro
Come sempre invito a farsi un’idea di prima mano leggendo la lettera in originale sul sito del Corriere (datata 16 gennaio 2011).
A conclusione di questa vicenda, sulla quale spero di aver fornito utili spunti di ragionamento, vorrei ribadire quanto ho commentato proprio sul contributo precedentemente citato di Stefano Quintarelli intitolato Il mondo nuovo, in merito alla fattibilità più che sulla scontata utilità dell’auspicata riforma del diritto d’autore:
[…] Il problema è che abbracciare una tematica del genere ed estrarne una legislazione al passo coi tempi richiederebbe una politica forte. Al contrario l’impressione – e la delibera AGCOM è solo l’ultimo degli esempi in tal senso – è che la politica sia divenuta ormai da anni la longa manus di poteri lobbistici, per giunta – ed è quel che è più patetico – di dimensioni economiche anche trascurabili.
Giunti a questo punto, supporre che con le armi della ragione si possa raddrizzare questa stortura è puro “wishful thinking”, o forse uno scambiare gli effetti con le cause. Perché se il lobbismo ha sostituito il primato della politica, lo si deve ad una classe dirigente i cui orizzonti di visione si sono via via ristretti al minimo indispensabile per garantire la sua stessa sopravvivenza. La libertà, apertura, neutralità della rete non è funzionale alla sopravvivenza di questa classe dirigente più di quanto non lo sia il colore degli autobus di Roma.
E forse, perdonami la conclusione luddista, sono proprio i mass media, sempre più pervasivi, sempre più real-time, ad aver azzerato la visione di lungo termine, ad aver creato questo mercimonio del consenso di breve gittata e questa forza persuasoria ineludibile (sempre utile per far inghiottire al popolo pillole indigeste) che sono gli unici salvagenti rimasti a tenere a galla il potere.
Chi mi legge sulla rubrica semisegreta il tarlo sa che reputo le problematiche legate al diritto d’autore non decodificabili col filtro delle visioni pseudo-progressiste di chi, in questo nuovo ciclo tecnologico, ha convenienza economica nell'”aggregazione” dell’opera altrui (i cd. “over the top”).
Se da un lato ci sono soggetti che pretendono che tutto il mondo si adegui alle tecnologie che con profitto mettono in campo, dall’altro però c’è chi pretende che il mondo si conformi alla propria incapacità di rivedere modelli di remunerazione radicati nella prima metà del secolo scorso.
Se è vero che un futuro sempre più scandito dai ritmi della tecnologia getta ombre sinistre sulla cultura umana per come l’abbiamo conosciuta finora, la risposta compete ad un progetto politico radicato sugli interessi di lungo termine della collettività. Rispetto a questo esito, tanto auspicabile quanto improbabile date le attuali premesse, gli interessi lobbistici di parte e le loro conseguenti rappresentazioni istituzionali, rappresentano l’ostacolo per eccellenza.