Qualche giorno fa Facebook ha commissionato ad un’importante società PR una “campagna di sensibilizzazione” sulla gestione dei dati personali attuata da Google, dimostratasi poi fondata su evidenze irrilevanti se non pretestuose e condotta con sistemi piuttosto scorretti – la proposta rivolta ad un influente blogger di pubblicare lo “scoop” sotto dettatura dei PR in cambio della visibilità su importanti testate giornalistiche USA.
Divenuta pubblica la questione, tanto Facebook quanto l'”esecutore materiale” – Burson Marsteller – hanno cercato di prendere le distanze dall’accaduto con spiegazioni parziali e alquanto scoordinate. In particolare Burson Marsteller ci ha tenuto a sottolineare che un simile metodo di condotta è estraneo alla deontologia dell’azienda e che dunque una richiesta del genere avrebbe dovuto essere respinta al mittente. Meglio tardi che mai.
L’evidente urgenza di dimenticare la figuraccia usando come anestetico ammissioni parziali e poco sensate e altre contorsioni dialettiche, ha da subito rafforzato in me la convinzione che quella emersa nel caso Facebook-Google sia in realtà una prassi consolidata, venuta allo scoperto per una mera coincidenza.
Se così fosse, di uno specifico argomento sensibile ci verrebbe rivelato solo ciò che al diretto interessato, o ad una parte ad esso avversa, interessa che conosciamo. Della privacy di Google conosceremmo da un lato quel che Google vuole farci sapere – informazioni presumibilmente rassicuranti, forgiate e diffuse dagli uffici stampa di Mountain View. Dall’altro, ossia dalla voce diretta o indiretta di Facebook, tutto quanto di allarmante si può dire sul tema – evitando magari di accendere un fuoco che poi minacci anche le policy di un social network creato da un personaggio dichiaratamente ostile alla nozione di privacy.
Un sistema in cui istituzionalmente di un dato oggetto conosciamo solo la versione del diretto interessato e quella dei suoi oppositori, in cui cioè è strutturalmente assente competenza analitica e terzietà nell’osservazione e descrizione dei fenomeni, è strutturalmente incapace di produrre informazione utile e rilevante. Il suo unico risultato è una presentazione della conoscenza frammentata in opposte ed inconciliabili approssimazioni, che polarizza senza informare.
La legione di rimbalzatori e rimasticatori di notizie – e un giornalismo professionale che per motivi economici è spesso costretto a soprassedere sulla deontologia – rappresenta per questo sistema e i suoi promotori, il terreno di coltura ideale. Rispetto al quale, è bene ricordarlo, il rifiuto opposto dal blogger interpellato da Burson-Marsteller rappresenta l’eccezione, non la regola.
A tal proposito c’è da scommettere che dopo questa debacle i PR si faranno ancora più furbi: è il loro lavoro. E il pubblico?