650 milioni di dollari nei primi cinque giorni di commercializzazione. E’ questo lo spaventoso dato a partire dal quale vorrei intavolare una riflessione su quella che è considerata la decima arte: i videogiochi.
Il titolo che ha raggiunto questo traguardo è Call of Duty: Black Ops di Activision e ciò che rende tale cifra particolarmente significativa è il fatto che rappresenta il più elevato incasso mai effettuato da qualsiasi forma di intrattenimento in un lasso di tempo così piccolo. Ed è significativo che il precedente record non apparteneva ad un film o ad un libro, ma al precedente Call Of Duty: Modern Warfire 2 con 550 milioni di dollari.
Come se non bastasse, i record non finisco qui: Call of Duty Black Ops su XBox Live ha fatto registrare oltre 5,9 milioni di ore di gioco in multiplayer nelle sole prime 24 ore in cui è stato sugli scaffali.
Si tratta di numeri sbalorditivi che fanno ben comprendere come di fatto i videogiochi rappresentino la forma di intrattenimento che dal punto di vista commerciale stia ottenendo il maggiore consenso ormai da diversi anni.
L’aspetto più comico di questa situazione è che, purtroppo per noi, il nostro Paese ha sempre dimostrato nei confronti di questo mercato una quasi totale indifferenza. Del resto avete mai sentito parlare di grandi software house italiane che hanno sfoderato un qualche titolo di successo? Onestamente oltre alla Milestone e all’ufficio italiano di Ubisoft, non mi sembra che ci sia molto altro di cui vantarsi.
Purtroppo l’industria dei videogiochi è uno di quei settore nel quale non si è investito nel nostro Paese e ne parlo con cognizione di causa in quanto oltre 5 anni fa, periodo nel quale mi stavo laureando in informatica, ricordo che parlai con il mio relatore chiedendogli se ci fosse stato spazio per lo sviluppo di qualche progetto e/o corso universitario dedicato alle tematiche tipiche della programmazione dei videogame. Lui mi rispose che non aveva nulla in contrario (del resto la mia tesi era incentrata nello sviluppo di un motore grafico con OpenGL), ma che sarebbe stato sicuro che ai piani alti gli avrebbero bocciato la proposta dicendo che non c’era spazio per i “giochini” nei piani di studio.
Nel piano di studi di un informatico, quindi, c’era spazio per la matematica, la logica, i database, le reti bayesiane, gli algoritmi genetici, le reti neurali, il data mining, le reti di petri, ma non per quanto fosse necessario conoscere per avere almeno un’idea delle problematiche che ci sono dietro lo sviluppo di un motore grafico. Eppure non stiamo parlando di fare quattro disegnini, ma di avere a che fare con problemi matematici e geometrici abbastanza complessi, con l’interfacciamento all’hardware mediante API, con l’implementazione di AI e della fisica, tutti contenuti che ritengo essere degni di essere considerati a livello accademico.
Penso che definire “giochino” un videogame oggi sia talmente semplicistico e superficiale, quanto lo sarebbe definire un disegnino, un’opera di Monet, oppure un ammasso di pietre, la basilica di San Pietro, oppure un filmino, un’opera cinematografica come Schindler’s List. Dietro un videogame oggi c’è spazio per programmatori, compositori, musicisti, doppiatori, disegnatori e per molte altre figure il cui ruolo è molto più creativo ed artistico, che tecnico.
Non so onestamente se nel resto del nostro Paese la situazione sia la medesima e se le cose siano migliorate da allora, probabilmente si, ma all’atto pratico lo stato attuale dell’industria videolodica italiana evidenzia quanto poco si sia fatto rispetto agli altri paesi. Un vero peccato, l’ennesima occasione mancata.