È dura difendere la libertà di espressione avendo chiare tutte le sue possibili conseguenze. Se n’è reso conto anche Jimmy Wales, co-fondatore di Wikipedia, come risulta da una videointervista rilasciata al popolare giornalista americano Charlie Rose.
Si è spinto fino a dire che “se avessi informazioni importanti l’ultima cosa che ci farei sarebbe mandarle a Wikileaks”, il che, come ricorda Techcrunch, fa il paio con quanto Wales dichiarò circa Wikileaks a proposito della recente pubblicazione di documenti riservati dell’esercito statunitense, contenenti scomode rivelazioni sul conflitto iracheno.
Quel che è più interessante è che Wales preferirebbe inviare informazioni scottanti a testate giornalistiche qualificate e responsabili, come per esempio il New York Times.
L’osservazione di Wales è interessante e non campata in aria. Non intendo tuttavia giudicare in questa sede la moralità del comportamento di Wikileaks: vorrei piuttosto sottolineare alcuni punti salienti di una tensione che in queste pagine abbiamo spesso sollevato (nella rubrica semisegreta il Tarlo), che la questione di oggi richiama prepotentemente.
Mi spiego: fin dall’alba dei social media, schiere di visionari hanno costruito una filosofia – dai marcati risvolti populisti – poggiata essenzialmente su due pilastri.
1) l’intelligenza della massa nella produzione e selezione di informazioni e notizie come opposta al gatekeeping culturale del giornalismo tradizionale;
2) l’assoluta e incondizionata libertà di espressione (una versione ammodernata e amplificata della “dichiarazione d’indipendenza” di Barlow).
Mentre la gran parte dei social network ha preso una deriva commerciale – preferendo di lucrare sull’abolizione de facto della privacy o sulla trasformazione di tanti entusiasti blogger in content farm a costo zero, riducendo i principi ispiratori 2.0 a vuoti simulacri utili solo a legittimare intenzioni di profitto – tanto Wikipedia quanto Wikileaks hanno in un certo senso spinto questi principi alle estreme conseguenze al di fuori degli schemi del lucro.
Wikipedia lo ha fatto creando un modello che lascia all’intelligenza collettiva la verifica dell’attendibilità e dell’accuratezza delle informazioni inserite, in questo abolendo di fatto la preminenza dell’esperto sull’appassionato. Con una volontaria, convinta e sistematica violazione della segretezza, Wikileaks ha invece portato la libertà d’espressione ad un punto tale da scatenare dubbi anche nei più convinti sostenitori delle libertà digitali.
In effetti quel che più mi sorprende della dichiarazione di Wales non sono i comprensibili “mixed feelings” circa Wikileaks ma piuttosto il ruolo che il fondatore di Wikipedia attribuisce al giornalismo professionale nella gestione di informazioni delicate. Una funzione, quella giornalistica, che la sua organizzazione e più in generale il movimento 2.0 che l’ha eletta a simbolo, si avviano a seppellire nel tripudio dei più.