Social networking e applicazioni mobile con funzioni di geolocalizzazione ci sottraggono ogni giorno piccole fettine di privacy. Questo pezzo parte da una domanda molto semplice: sappiamo dove stiamo andando?
È ormai chiaro (se servisse, un mediagramma di Matt McKeon aiuta a schiarirsi le idee) che Facebook, per aumentare la sua appetibilità pubblicitaria, sta rendendo accessibili a chiunque – anche e soprattutto a terze parti con scopi commerciali – la gran parte dei dati che conserva sugli utenti.
Mesi fa sostenevo che la sostenibilità economica di Facebook passasse per la trasformazione del Grande Fratello in un modello di business e la previsione, fin troppo facile, si sta avverando clamorosamente.
Un discorso analogo meritano le applicazioni mobile geolocalizzate, che addirittura escono dal monitor per accompagnarci nei nostri percorsi di svago e di lavoro. Siamo appena all’alba di questa rivoluzione, e i modelli ancora grezzi in circolazione si evolveranno presto in una nuova generazione di servizi. Servizi fra cui il famoso e già fallito marketing di prossimità, poggiato stavolta su strumenti in grado di renderlo molto più efficace della sua prima incarnazione.
La domanda fondamentale diventa: quanta parte degli utenti di questi servizi è consapevole della contropartita che gli si richiede in termini di privacy?
Prima che qualche sonnolento garante si risvegli dal torpore primaverile e faccia calare la mannaia, non sarà il caso di fare una seria valutazione costo/benefici.
Io per me l’ho fatta: Facebook lo tengo attivo perché capire cosa ci succede dentro fa parte del mio lavoro, e non posso permettermi di snobbarlo. I servizi geolocalizzati li uso con interesse non perché oggi mi offrano qualunque funzionalità, quanto perché sono estremamente interessato nell’osservarne l’evoluzione verso qualche utilità in più che diventare “major” di una salumeria.
E tu come ti rapporti col grande baratto della privacy? Pensi che l’utilità bilanci la retrocessione della tua privacy?