Sembra un patto di non belligeranza da guerra fredda, ma in realtà si tratta di un accordo di mutuo aiuto fra una multinazionale e la comunità open source (intesa come “entità”; riguarda, cioè, chi opera nel settore): la prima ha degli interessi che ricadono nell’aerea FOSS, e la seconda ha tutto l’interesse a non subire sanzioni derivanti da eventuali infrazioni delle proprietà intellettuali in mano al colosso. Il tutto in un’ottica che appare tutt’altro che concorrenziale.
I brevetti, si sa, sono saldamente in mano a queste aziende, poiché dotate di enormi comparti di ricerca e sviluppo che ne producono, vuoi per “effetto collaterale” a seguito degli studi che stanno facendo, vuoi perché si cerca appositamente di arricchire il proprio portfolio, in modo da poterlo poi vendere o barattare con altre aziende interessate; oppure lo si usa per mettere in piedi delle cause col solo scopo di far cassa (pratica ormai comune, purtroppo).
Il fine è sempre il solito: il guadagno. Anche perché non soltanto la fase di R&D costa, ma pure i brevetti non sono da meno, specialmente se di carattere internazionale. Si tratta di spese che pochi sono in grado di sostenere, per cui difficilmente piccole realtà possono vantare il possesso di qualcuno di essi.
Senza entrare nel merito dei brevetti (di cui magari parlerò in qualche futuro articolo) è sicuramente utile e rassicurante lavorare nella consapevolezza di non dover subire attacchi di questo genere nello sviluppo di proprie soluzioni, che poi comunque saranno messe a disposizione di tutti.
La promessa di non sfruttare il proprio bouquet di brevetti favorisce un clima del genere, e dichiarazioni di questo tipo sono state rilasciate già da tempo da diverse società di grosso calibro, alcune particolarmente attive anche in termini di contributi finanziari o mettendo a disposizione personale qualificato per lavorare a progetti open source.
Pertanto ha fatto molto scalpore la decisione, da parte di una di queste aziende, di voler far causa a una piccola società che sviluppa soluzioni open source. Posato il calumet della pace e dissotterrata l’ascia di guerra, è stata fatta carta straccia della precedente promessa, e una letterina con l’elenco delle possibili violazioni dei brevetti è stata recapitata al presunto trasgressore.
A questo punto se si trattasse del colosso di Redmond per qualcuno tutto avrebbe un senso e si spiegherebbe la mossa, visto che anche Microsoft si annovera fra essi e s’è impegnata a non adire alle vie legali per chi sfruttasse brevetti di sua proprietà relativamente a certe tecnologie in seno al framework .NET, ad esempio.
Giuda traditore va, però, ricercato altrove, trattandosi niente meno che di IBM, azienda ben nota per le dichiarazioni d’intenti e il vasto contributo fornito a progetti open source, sia in termini puramente economici (finanziandone alcuni) che di programmatori del suo asset impiegati allo scopo.
La vicenda trae origine dal lavoro svolto da un piccola società, chiamata TurboHercules, che ha avuto l’ardire di progettare un emulatore in grado di far girare le applicazioni disponibili per i sistemi Z (mainframe della casa BigBlue).
Settore, questo, estremamente importante per IBM che è da sempre impegnata in questo segmento di mercato (data la sua storia, l’ha praticamente inventato lei), per cui è comprensibile anche questo provvedimento atto a tutelarsi dallo sfruttamento di quest’applicazione da parte della concorrenza, intaccando i suoi profitti.
Va precisato che IBM non ha “aperto” l’intero bagaglio dei suoi brevetti (com’è possibile appurare dal link che ho fornito prima), ma l’ha fatto soltanto per una piccolissima parte, cioè per alcuni che considera vitali per i progetti open source a cui è, manco a dirlo, interessata. Tutti gli altri rimangono saldamente nelle sue mani.
Quindi tecnicamente non si potrebbe additarle alcunché, ma da tempo, e per quanto detto, è considerata “amica” del FOSS e il gesto la pone sicuramente in direzione opposta alle aspettative della comunità, particolarmente avversa ai brevetti e all’uso coercitivo che se ne fa.
Altro elemento degno di nota è che l’emulatore open source dei sistemi Z non ha mai dato fastidio in passato e IBM, pur essendone a conoscenza, non ha mai agito legalmente poiché non lo considerava che un “hack”, un esperimento di smanettoni, che tra l’altro ha pure usato in alcune occasioni.
Non c’erano risvolti commerciali, e in ogni caso era molto sicura che non ve ne fossero sia per la natura del progetto che per il cumulo di brevetti e licenze d’uso con cui aveva blindato i suoi mainframe. BigBlue, insomma, ha dormito da sempre sonni tranquilli senza mai temere nulla.
Il sonno s’è trasformato in incubo nel momento in cui TurboHercules ha trovato una falla sfruttabile per aggirare i restrittivissimi limiti delle licenze, e ha pensato bene di sfruttarla per guadagnarci sopra, proponendo ai possibili clienti l’opportunità di far girare le applicazioni System Z in normali PC, con evidenti risparmi. Ciò ha fatto svegliare IBM, portandola all’azione citata.
A IBM non si può rimproverare nulla, poiché agisce a sua tutela, e non è nemmeno la prima multinazionale “amica” dell’open source a comportarsi in questo modo. Ricordiamo Google che ha fatto lo stesso per le sue applicazioni fornite in dotazione ad Android (ma solo alle sue condizioni), di cui abbiamo parlato in un recente articolo.
Certamente l’episodio pone spunti di riflessione, e la comunità FOSS penso s’interrogherà sui rapporti da tenere con queste realtà. Che fare, dunque? Continuare sulla stessa strada, “turandosi il naso”, visti gli indubbi vantaggi che derivano dall’aiuto sia economico (i soldi fanno comodo, è innegabile; qui ci siamo occupati di spiegare come l’open source abbia difficoltà a sopravvivere senza soldi) che professionali?
Oppure prendere le distanze, cercando di allontanarsene per rimanere con le “mani pulite”? Ma in che modo, vista la natura dell’open source e il fatto che chiunque, quindi anche le non gradite multinazionali, può contribuire a questi progetti?