Dopo anni di dominio dell’Earth Simulator di NEC, IBM è tornata saldamente al comando della Top 500, la classifica dei supercomputer più performanti del pianeta. Non sorprende dunque che arrivi proprio da Big Blue l’idea di concentrare in un solo, enorme sistema Blue Gene, l’intera rete Internet.
Si tratta ancora di un’ipotesi, direi anche piuttosto ambiziosa, ma il fatto che provenga da un colosso come IBM la rende degna di qualche attenzione.
Prima di andare oltre, diamo uno sguardo ai numeri del cosiddetto progetto Kittyhawk: il sistema consiste in un’architettura Blue Gene/P, ordinata gerarchicamente: 4 core PowerPC ad 850Mhz su ogni chip, dotato di controller di memoria e bus di interconnessione. 32 chip per ogni scheda (nodo). 16 nodi ogni midplane, due midplane per ogni rack, per un totale di 1024 nodi – 4096 processori – a rack. Il rack è poi dotato di 2Tb di RAM (tanto per affrontare serenamente il successore di Vista) e se ne possono interconnettere appena 16.384.
In totale arriviamo quindi a 67.1 milioni di core (300 volte più di quanti ne abbia il campione della Top 500), con un’ampiezza di banda I/O complessiva pari a 10.4 Petabyte/secondo. E stiamo parlando di un’architettura che sarà upgradata prima dell’implementazione con la più potente ed efficiente Blue Gene/L, detentrice del primato. Ho il sospetto che serva qualcosa in più di una ADSL per trasformare questa belva elettronica in un web/application server di scala mondiale, ma immagino che ad Armonk abbiano pensato anche a questo.
L’idea che si trova alla base del progetto è che l’architettura cluster, finora preferita nei grandi datacenter (tra cui Amazon, Sun, Microsoft, Google), sia molto più inefficiente di quella basata su grandi sistemi SMP, i quali offrono vantaggi in termini di efficienza energetica, densità e affidabilità. I cluster dal canto loro costano meno, essendo composti di hardware commerciale, e offrono una scalabilità più granulare. Solo che, sempre secondo IBM, la rapidità con cui cresce la domanda di servizi web è tale da implicare forti livelli di crescita, che rendono conveniente anche il procedere a “grandi passi” – ossia un rack SMP dopo l’altro – piuttosto che affrontare i più complessi processi di validazione richiesti dall’ampliamento di cluster.
I benchmark pubblicati per l’implementazione attuale – che fa uso di un microkernel Linux – malgrado la ancora scarsa ottimizzazione, lasciano supporre che Blue Gene possa fare a polpette qualunque cluster. A suscitare la perplessità degli analisti rispetto a questo approccio, è tuttavia l’uso dell’architettura proprietaria PowerPC, che vincola a doppio filo a Big Blue. Basteranno dunque l’efficienza e le performance a convincere – per esempio – Google a consegnare ad IBM le chiavi del datacenter? Lo scopriremo fra qualche anno. Se avverrà, questo è certo, sarà un duro colpo inferto da IBM all’architettura x86 sulla quale, lo ricordiamo, Big Blue non può rivendicare diritto di paternità.
Per chi desiderasse approfondimenti, qui c’è la relativa pubblicazione di IBM (è richiesta la registrazione).
Fonte: DailyTech