Negli ultimi anni si è andato affermando nella rete il nuovo modello del Web 2.0 e da qualche mese anche qui in Italia si parla molto di Web 2.0; a dire il vero, secondo me, se ne parla anche troppo, o per lo meno se ne parla senza che tutti gli interlocutori sappiano davvero di cosa si stia parlando.Ritengo che il Web 2.0, così come altri fenomeni nuovi tra cui SecondLife, siano vissuti dalle aziende italiane più o meno con lo stesso approccio che fu usato negli anni ’90 con internet. Si cerca, cioè, di trasportare modelli di business consolidati in altri ambiti, in nuovi ed inesplorati settori, con strategie che spesso preludono disastri.
Il 28 settembre si è tenuta un’interessante conferenza (organizzata da Reply) al Palazzo della Stampa a Milano, cui ho partecipato, il cui scopo era proprio quello di capire cosa il Web 2.0 può significare per il contesto Italiano, notoriamente arretrato, soprattutto su questo punto, rispetto agli altri paesi occidentali. Il panel era composto da figure di spicco di importanti realtà che operano nel mercato italiano (eBay, Mediaset, MySpace, Microsoft, Disney ed altri), stimolate dal moderatore Alan Friedman a condividere le esperienze 2.0 vissute dalle proprie società.
La discussione è stata anticipata da un interessante intervento di Denise Kalos (Managing Partner, Hinchcliffe&Co.), donna che il Web 2.0 ha contribuito a teorizzarlo considerando che ha lavorato per anni a stretto contatto con il noto guru Tim O’Reilly. Il suo intervento non ha fatto altro che confermare che il mercato nel quale opera (gli USA) è profondamente diverso da quello italiano, rendendo molto difficile l’esportazione dei loro modelli di business. Negli Stati Uniti, infatti, l’alfabetizzazione tecnologica è elevata, il sogno di Bill Gates “un PC in ogni casa” da loro è realtà. Inoltre in America la conoscenza del computer e della tecnologia in generale è mediamente più approfondita che in Europa e coinvolge fascie d’età anche non più giovanissime, a differenza del panorama italiano nel quale internet, e in generale l’informatica, è poco conosciuta e i pochi bacini d’utenza nei quali troviamo una certa dimestichezza con essa, riguarando solitamente fasce di età molto giovani, quindi fuori da incarichi executive nel mondo del lavoro. Questo commento, tra l’altro, induce anche a riflettere sul fatto che per noi italiani si è “giovani” fino a 70 anni, mentre in altri paesi è stimolato un ricambio generazionale più dinamico. Un esempio su tutti: basti pensare che il Primo Ministro Tony Blair si è dimesso dall’incarico chiudendo la sua lunga stagione politica (3 mandati), alla stessa età di Walter Veltroni che oggi è visto come “sangue nuovo” e probabile futuro candidato alla Presidenza del Consiglio.
Nel corso del resto della mattinata i vari relatori che si sono susseguiti non hanno fatto altro che confermare l’attuale orientamento del Web 2.0 Made in Italy: molto poco 2.0 e caratterizzato quasi esclusivamente dalla pubblicità tradizionale come unica fonte di guadagno. Poco 2.0 perchè ancora legato ai concetti del Web 1.0. Troppi in Italia credono ancora che basti aggiungere la possibilità di commentare un articolo o dare una votazione da 1 a 5 per trasformare miracolosamente un sito 1.0 in 2.0; mentre la realtà è ben altra. Innanzitutto non tutti possono efficacemente convertirsi in società 2.0, in quanto ci sono modelli di business che si adattano a questa trasformazione ed altri che invece non possono fisiologicamente farlo. In secondo luogo c’è una generale paura, soprattutto delle aziende, di lasciare parlare i clienti. Paura a mio avviso ingiustificata dato che, se il cliente vuole parlare male di una certa azienda, può farlo tranquillamente su altri siti, anche se l’azienda sul suo non gli dà voce.
Altro limite al Web 2.0 italiano è dato dal fatto che le poche realtà 2.0 sono quasi interamente sostenute da campagne pubblicitarie tradizionali, che non aiutano sviluppare un modello di business innovativo. Interessante a questo proposito l’esperimento di MySpace Italia che ha rotto questo paradigma lanciando una campagna pubblicitaria che invitava cantanti amatoriali a partecipare ad un concorso, il cui vincitore si sarebbe esibito sul palcoscenico prima dell’inizio di un concerto di un noto cantante. L’iniziativa è stata supportata da uno sponsor che ha trasmesso il suo marchio e il suo messaggio pubblicitario attraverso canali innovativi, quali video virali e altre iniziative che si sono affiancate ai più tradizionali banner. Esempio molto bello di come il Web 2.0 possa portare innovazione, peccato che della giornata è stato pure l’unico, dato che gli altri partecipanti non hanno proposto niente di nuovo. Yves Confalonieri (Mediasat) ha addirittura affermato che RTI fu pioniera del Web 2.0 e dell’User Generated Content più di 10 anni fa lanciando Paperissima: imbarazzante.
A mio avviso il quadro che emerge è nel complesso sconfortante. Se è vero, infatti, che ci sono tante teste e tante idee nuove, provenienti da varie direzioni, è altrettanto vero che nel corso dei decenni si è creata nel nostro paese una struttura tale da rendere difficile, laddove non impossibile, lo sviluppo di idee nuove. E’ sbagliato guardare al mondo statunitense per importare nel nostro, perchè allo stato attuale delle cose si rischierebbe di fallire. Sia gli investitori (le aziende) che il target (i consumatori) sono oggi troppo arretrati per comprendere il messaggio, rischiando di sprecare l’investimento (così come accadde negli anni ’90). La cosa grave è che il nostro paese è indietro anche rispetto ai suoi vicini europei, in particolare molti paesi del nord Europa si stanno distinguendo per la loro creatività in ambito internet.
Tutto ciò rappresenta una grandissima opportunità persa, pensiamo solo al benificio che il turismo potrebbe trarre da una vera innovazione e cultura tecnologica. Basti confrontare come Svizzera e Italia presentano la propria offerta turistica per comprendere la mole di lavoro che c’è da fare. L’Italia, paese certamente più ricco di bellezze e possibilità turistiche della Svizzera, si vende molto peggio. Molte località non hanno neppure un sito internet 1.0, figuriamoci parlare di 2.0! Il portale Italia.it, mandato online qualche mese fa dopo anni di ritardo e costato circa 50 milioni di euro (cifra folle per un sito web), è stato un mezzo disastro, tanto da spingere una nutrita comunità di appassionati ad offrirsi di ripensarlo e ridisegnarlo gratuitamente.
Niente da fare allora? Certamente no. Innanzitutto è possibile investire in nicchie, isole felici nelle quali troviamo aziende innovative che hanno clienti capaci di comprendere il messaggio. Basti pensare a chi produce prodotti e servizi per giovani, sicuramente idoneo a trarre vantaggio da campagne 2.0. In secondo luogo non è da escludere che un domani la situazione cambi, che cadano alcune delle strutture e dei monopoli che oggi rendono difficile un vero sviluppo e una vera concorrenza. Prepararsi oggi a questa evenienza futura potrebbe rappresentare il successo.