Personalmente, non ho mai potuto soffrire il motto “don’t be evil”. Quando Evan Williams, co-fondatore di Twitter, ha dichiarato su TechCrunch che il “first principle” della sua creatura – chissà che un giorno o l’altro non ne diventi l’orrendo payoff – è “be a force of good” (sii una forza del bene), sono rimasto abbastanza perplesso ma per nulla stupito.
La mia spontanea antipatia per questo genere di uscite deriva da un ragionamento molto rasoterra: l’operazione di rivestire di etica aziende che trimestralmente si confrontano con i bilanci, è piuttosto ambigua, per usare un eufemismo.
Cosa ci si può infatti attendere da un’azienda che dichiara di voler essere una “forza del bene”? Che sia disposta ad adottare atteggiamenti antieconomici pur di perseguire “il bene”? Che sia pronta ad andare incontro al fallimento, all’azzeramento del suo valore azionario, alla vanificazione dell’opportunità di una IPO di successo, pur di servire i nobili principi che declama ai quattro venti? Che non debba confrontare le sue strategie con gli interessi economici degli investitori?
A costo di sembrare cinico, non vedo come la partita doppia possa incontrare l’etica, se non in maniera incidentale. Ci si può dare un codice deontologico, si può operare al di fuori di fronti in cui il conflitto bene-male emerga chiaramente, ma ho qualche difficoltà nell’inquadrare un ente che non operi con espliciti scopi caritatevoli, fra le “forze del bene”.
Contrariamente alla fermezza dei suoi proclami, la stessa Google – che pare intenda cessare le operazioni in Cina – è costretta a muoversi con estrema cautela: non sarà che i buoni sentimenti col business non ci hanno proprio nulla a che vedere?