La scorsa settimana abbiamo introdotto l’argomento sensori digitali, parlando in generale della loro funzione e introducendo alcuni elementi architetturali nonchè una prima distinzione tra tipologie di sensori.
Oggi vorrei iniziare ad approfondire l’argomento su alcuni degli elementi base che compongono la struttura di un sensore digitale. Abbiamo detto che lo scopo di un sensore è quello di catturare luce e trasformarla in un segnale elettrico che possa essere letto e interpretato da un processore che ha il compito di trasformare l’insieme dei segnali ricevuti in un’immagine.
Per svolgere questo compito, un sensore, di qualunque tipo esso sia, deve essere dotato di elementi che gli permettano di ricevere la radiazione luminosa. L’elemento più semplice atto a svolgere questa funzione è il cosiddetto fotodiodo.
Per capire come funziona un fotodiodo è opportuno fare una breve digressione sulla giunzione p-n. Questo è un argomento che si sarebbe potuto trattare anche a sé stante ma, probabilmente, ciò avrebbe interessato solo gli appassionati di fisica e di elettronica e un po’ meno la stragrande maggioranza dei potenziali lettori di questo blog. Così ne parliamo in quest’ambito, in maniera il più possibile semplificata e breve.
Iniziamo col dire che i materiali, dal punto di vista delle proprietà elettriche si dividono in isolanti, semiconduttori e conduttori. Ogni materiale, di qualunque natura, può essere schematizzato nel modo seguente
dove Ev indica il limite superiore della banda di valenza (ossia rappresenta il livello energetico più alto degli elettroni di un atomo quando non sono sottoposti ad eccitazione) ed Ec quello inferiore della banda di conduzione (il livello energetico più basso degli elettroni eccitati e, di conseguenza, strappati ai rispettivi nuclei). Questo perchè (e qui rischio di sconfinare nella materia della brava Eleonora), la struttura atomica prevede la presenza di orbitali che sono livelli energetici permessi, ovvero in cui è possibile trovare gli elettroni, inframezzati da bande proibite definite gap che rappresentano livelli energetici in cui è impossibile trovare elettroni.
Un elettrone, ad esempio, dell’orbitale 1S dell’atomo di idrogeno, può saltare, se eccitato, nell’orbitale 2S, che rappresenta il livello energetico immediatamente superiore, ma non potrà mai trovarsi nella banda posta tra i due orbitali. Chiudo questa breve digressione prima che si scateni l’istinto di fare una trattazione di fisica quantistica (materia che, all’università, ho adorato) e torno a parlare delle proprietà dei materiali.
Tornando alla schematizzazione precedente, vediamo in cosa si differenziano un conduttore, un isolante ed un semiconduttore. Un qualunque reticolo cristallino è schematizzabile con una distribuzione periodica tridimensionale di atomi; questi atomi sono tenuti insieme da legami in cui entrano in gioco gli elettroni degli orbitali più esterni
La differenza principale tra un conduttore, un semiconduttore ed un isolante risiede nella forza con cui questi elettroni sono trattenuti dai nuclei degli atomi di appartenenza o, come si dice in gergo, nel potenziale di ionizzazione dei singoli atomi. I conduttori, tipicamente metalli che si trovano sulla sinistra della tavola periodica, sono elementi più portati a cedere elettroni, motivo per cui i legami metallici sono caratterizzati da un elevato numero di elettroni in banda di conduzione (non vi sto a tediare con tipi di legami, ibridizzazione, ecc.).
Si può dire che, tornando alla figura che riporta lo schema a bande, in un conduttore il fondo delle banda di conduzione e il limite superiore di quella di valenza finiscono quasi con il sovrapporsi, facilitando il trasferimento degli elettroni dalla seconda alla prima. La differenza tra un semiconduttore ed un isolante, invece, è nella misura del gap tra le due bande che nell’isolante è molto maggiore, rendendo, di fatto, impossibile il trasferimento degli elettroni nella banda di conduzione (gli elettroni sono fortemente legati ai propri nuclei).
In un semiconduttore, la banda proibita è di dimensioni tali da permettere il passaggio di elettroni, opportunemente eccitati, dalla banda di valenza a quella di conduzione; l’ampiezza del gap varia con la temperatura e, nello specifico, diminuisce all’aumentare della temperatura; in altre parole, all’aumentare della temperatura aumenta l’attitudine degli elettroni a passare nella banda di conduzione, ossia ad essere allontanati dai nuclei, per semplice agitazione termica.
Per migliorare questa attitudine, si introducono delle impurità all’interno della struttura cristallina. Consideriamo, a titolo di esempio, semicondutottori del IV gruppo (Si o Ge), che hanno 4 elettroni di valenza nell’orbitale più esterno e quindi sono portati a creare 4 legami di tipo covalente o ionico con altri atomi; introducendo atomi “pentavalenti”, ossia con 5 elettroni disponibili a creare legami, ogni atomo drogante si lega con 4 atomi di Si o Ge e “rende disponibile” un elettrone. Si viene, così, a creare un eccesso di cariche negative che favorisce il meccanismo della conduzione.
Analogamente, l’introduzione di atomi “trivalenti” crea un eccesso di lacune; il primo tipo si dice di tipo n, il secondo di tipo p. Di fatto, un elemento drogante di tipo n introduce un livello popolato poco al di sotto del fondo della banda di conduzione, mentre un drogante di tipo p ne introduce uno poco al di sopra della banda di valenza. Questo favorisce, nel primo caso, il passaggio di elettroni in banda di conduzione e, nel secondo, la cattura di elettroni dalla banda di conduzione assimilabile al passaggio di lacune in banda di valenza).
Effettuare un drogaggio sia di tipo n che di tipo p permette di creare una giunzione p-n. Questo elemento è alla base di tutta l’elettronica che conosciamo. In una giunzione p-n avviene che le cariche di un segno migrino verso la zona di segno opposto per diffusione fino al raggiungimento dell’equilibrio (che avviene in tempi piuttosto brevi). All’equilibrio si ha la situazione schematizzata in figura
dove la zona tratteggiata è chiamata zona di svuotamento ed è caratterizata dalla presenza di lacune nella parte con drogaggio di tipo n e di elettroni in quella con drogaggio di tipo p. Come detto, il gap e quindi la possibilità che gli elettroni passino in banda di conduzione, variano con la temperatura, motivo per cui un dispositivo a semiconduttore, a temperature diverse dallo zero assoluto, presenterà sempre una seppur minima conducibilità.
Un dispositivo in cui sono accoppiate una zona p ed una n è detto diodo. Un dispositivo in cui si accoppiano due giunzioni p-n (una p-n-p o una n-p-n) è detto transistor.
Questa digressione sarà utile, per chi non avesse dimestichezza con gli elementi basilari dell’ettronica, a capire cosa è un fotodiodo o un fototransistor e come funzionano.
Prendiamo ora, una giunzione p-n e polarizziamola inversamente (ossia applichiamo una differenza di potenziale con il “positivo” rivolto verso il lato n), come mostrato in figura
In questa situazione abbiamo un campo elettrico nella zona di svuotamento, dovuto alle cariche minoritarie (lacune nella parte n ed elettroni in quella p) ed uno esterno. Nella zona di svuotamento, le lacune presenti sulla destra (lato n) tendono ad attirare gli elettroni del lato n che, però, sono respinti dagli elettroni presenti nella parte sinistra della zona di svuotamento.
Il campo esterno agisce in modo tale da attirare gli elettroni presenti sulla destra e respingere quelli presenti a sinistra. Questi due campi, sommati, allargano la zona di svuotamento e fanno si che la conduzione avvenga, in pratica, solo grazie alla presenza dei portatori minoritari da entrambi i lati della giunzione, gli unici che, a temperature diverse dallo zero assoluto, riescono a passare in un verso o nell’altro.
Questa piccola componente di corrente ha una stretta correlazione con la temperatura: l’agitazione termica eccita gli elettroni e crea coppie elettrone-lacuna che fluiscono attraverso la giunzione.Se introduciamo una fonte di eccitazione maggiore, possiamo incrementare questo flusso di corrente. In pratica, questo è quello che succede in un fotodiodo: la radiazione luminosa passa attraverso una parete trasparente (solitamente si utilizzano delle lenti per focalizzare la luce) e lo colpisce facendo saltare un maggior numero di elettroni nella banda di conduzione.
La corrente che fluisce dà la misura della radiazione luminosa incidente a meno della componente dovuta all’agitazione termica di cui si è parlato in precedenza (corrente di buio). La corrente di buio (o corrente termica), in un fotodiodo è dell’ordine dei nA e rappresenta una delle componenti di rumore di un sensore digitale.
Un fototransistor si basa su un principio analogo a quello del fotodiodo; il suo simbolo circuitale è il seguente,
Come si vede dallo schema, il principio di funzionamento è quello di un transistor a giunzione, in cui la corrente elettrica di base che modula quella che scorre tra collettore ed emettitore è determinata dalla radiazione luminosa incidente sulla stessa base. Rispetto al fotodiodo, il fototransistor ha una corrente di uscita pari alla somma di Ib (corrente di base), equivalente alla corrente generata nel fotodiodo dalla luce incidente, sommata alla dark current e moltiplicata per il guadagno del transistor.
Appare chiaro che il fototransistor ha correnti di uscita decisamente superiori rispetto a quelle di un fotodiodo; diciamo se un fotodiodo ha correnti d’uscita dell’ordine dei microA un fototransistor può averle dell’ordine dei mA. Il contro è dato dai tempi di risposta che presentano differenze comparabili a parti invertite, ossia se un fotodiodo ha tempi di commutaizione saturazione-interdizione dell’ordine di qualkche ns, per un fototransistor parliamo di micro secondi.
In basso sono riportati gli schemi di base di un collettore di luce basato su fotodiodo e su fototransistor rispettivamente (il secondo ha un circiuto più complesso e, di conseguenza, nell’ottica di un utilizzo su un sesnore di fotocamera o videocamera di tipo front illuminated, si deve tener conto della maggior superficie occupata dai circuiti elettrici
Il passo successivo sarà quello di vedere, la prossima settimana, come questi dispositivi sono integrati in una matrice di elementi fotosensibili e collegati elettricamente tra di loro ed ad altri elementi posti all’interno di un apparecchio per la cattura delle immagini.