Tempo di vacanze – ahimè già terminate per i più – e di ritorno a casa per i tanti “emigranti del lavoro”, fra cui il sottoscritto.
Come molti nella mia condizione sapranno, capita spesso che si trovino in quella che è stata anni prima la propria camera, piccoli stravolgimenti, frutto di massicce pulizie e vari riordini fra le cataste di libri, CD, floppy, vecchi alimentatori e altro ciarpame informatico frutto di anni di smanettamento domestico.
Di regola, dopo simili manovre, il malcapitato non ritrova più nulla dove l’aveva lasciato – va già bene se non è finito tutto nella spazzatura. Capita però che queste operazioni riportino alla luce oggetti che si credevano perduti o della cui esistenza ci si era completamente dimenticati.
È questo il caso di un libro, riemerso nel caos degli scaffali della mia camera, residuato dei miei trascorsi universitari in tempi di bolla.
Il titolo è Lo stile del web (Einaudi, 1999) e l’autore è Franco Carlini, grande cultore “dell’Internet” fin dai suoi primi giorni, che meglio di molti coevi connazionali, ha saputo parlare della rete senza cadere, e non è poco, nelle analisi entusiastiche che hanno riempito tonnellate di carta – che meglio sarebbe stata destinata ad usi igienici – alla fine dello scorso millennio.
Un po’ come accade oggi circa la vasta bibliografia dedicata alle magnifiche sorti e progressive del social networking, anche negli anni ’90 aleggiava attorno alla rete “1.0” un alone di aprioristico entusiasmo, sempre meno giustificato mano a mano che divenivano evidenti i limiti della “new economy” e i magheggi dei suoi più furbi promotori.
Per questo motivo è tanto più ammirevole la lucidità dell’analisi di Carlini, data alle stampe alla vigilia di quello “sboom” che avrebbe tappato la bocca a schiere di visionari rubati all’agricoltura – molti dei quali ritroviamo oggi, armati di immutata fede, a cantare le lodi del web 2.0 – e svuotato i conti correnti dei tanti che davano loro ascolto.
È proprio la capacità di Carlini di volare molto più in alto dei facili entusiasmi tanto in voga, a regalare della rete un’analisi che, a 11 anni di distanza, mostra ancora spunti di grande interesse. Un’analisi che vede in Internet, nei suoi linguaggi, per l’appunto nel suo “stile”, i germi di un medium, qualcosa di più che un colorato collettore dei media esistenti.
Un medium che va a inscriversi in modo spesso problematico, all’interno di un’evoluzione che inizia all’alba dei tempi, passando per le attività pittoriche del Paleolitico superiore, Gutenberg, la fotografia, la radio e la TV.
Quella de Lo stile del web è un’analisi che affronta con grande visione e competenza le implicazioni linguistiche della rete, e ne inquadra problemi tuttora centrali, come l’eccesso di sintesi e parcellizzazione dell’informazione, lì dove era auspicabile che essa riuscisse a liberarsi in Internet, dei limiti stringenti della TV o della carta stampata.
Mentre inquadra gli aspetti problematici, Carlini li sottrae alle fustigazioni a priori degli “apocalittici” di turno. Il che non è poco, se si considera di converso la sua storica bocciatura della “tecno-utopia di stampo californiano” strombazzata dai primi, fastidiosissimi, “digerati”.
Tanta visione, affonda le sue radici in una Internet, quella della fine anni ’90, ben lontana dalle sue peggiori tentazioni commerciali: un terreno vergine in cui ad ogni navigatore era consentito di scoprire un segreto e, dopotutto, di sentirsi parte di un’élite di pionieri.
Un non-luogo in cui ogni sito si visitava come fosse un monumento, con tanto di guestbook, analogo a quello che troviamo in musei o cattedrali.
A pochi anni dalla scomparsa di Franco Carlini, si sente la mancanza della sua capacità di leggere la rete resistendo alle parole d’ordine di qualunque segno, di andare, se necessario, controcorrente.
In una Internet in cui il rapporto segnale/rumore è ai minimi storici e si avvia a peggiorare, il suo nome è bastato fino all’ultimo – l’ultimo post sul suo blog risale a due giorni prima della sua morte – a contrassegnare qualcosa che valesse sempre e comunque la pena di leggere.
È triste constatare che, ai tempi della Internet felicemente liberatasi degli esperti, orgogliosa di concedere spazio ed attenzione in base a logiche che esulano totalmente dalla competenza per sconfinare prepotentemente nel terreno della celebrità, la comprensione delle evoluzioni e dei limiti di questo fantastico medium, nonché delle forze che lo governano, rimanga – in barba alle utopie democratiche della prima ora – appannaggio di un’élite.
Un po’ come accadeva agli albori della rete: quando, per la massa, i confini dell’interattività corrispondevano alla tastiera del telecomando.