In occasione dell’Intel Developer Forum dell’agosto dello scorso anno ho avuto modo di assistere, assieme al collega Alessandro, ad un interessante e visionario keynote incentrato sul concetto di singolarità tecnologica.
Lo riassumo brevemente, rimandando tutti gli interessati alla lettura dell’articolo scritto allora e che, sebbene pubblicato più di un anno fa, è comunque molto attuale.
Con i termini singolarità tecnologica si indica un momento nello sviluppo della civiltà umana in cui si verifica un’anomalia nel progresso tecnologico che ha come risultato una direzione imprevedibile e financo incomprensibile dalla civiltà che l’ha prodotta.
Un facile esempio per semplificare cosa sia un momento di singolarità tecnologica è un tema caro a moltissimi filoni letterari e cinematografici: l’avvento di un’intelligenza artificiale con capacità superiori a quelle del suo creatore. Banalizzando: una macchina senziente creata dall’uomo e ad esso superiore.
Intel sostiene che arriveremo al punto di singolarità tecnologica fra 40 anni. Nel campo della tecnologia tutte le previsioni lasciano il tempo che trovano e attualmente è difficile se non impossibile poter sentenziare se la singolarità sia un punto effettivamente raggiungibile o una retta cui si tende asintoticamente.
Gli argomenti trattati allora in quell’articolo mi tornano spesso alla mente, soprattutto quando nella vita di tutti i giorni mi capita di assistere ad episodi per lo più simpatici, ma che rappresentano una delle numerose sfaccettature del rapporto che l’uomo ha con la tecnologia.
Ad esempio, l’uso che viene fatto dei navigatori GPS: è un dispositivo che scherzosamente bollo come “tecnologia che disabitua a pensare”. Esagero ovviamente, poiché i navigatori satellitari spesso permettono realmente di cavarsi d’impaccio ed evitare chilometri di code o di strade “non segnate sulla cartina”, giungendo alla destinazione voluta senza alcun intoppo.
Tuttavia non posso fare a meno di sorridere quando vedo amici che normalmente sarebbero in grado trovare l’uscita del labirinto di dedalo anche bendati, ma che dinnanzi ad un navigatore satellitare perdono ogni traccia di assennatezza, pendendo incondizionatamente dalle labbra della fredda voce sintetizzata dopo aver girato su “OFF” l’interruttore della materia grigia: si butterebbero addirittura in un fossato perché “eh ma lo dice il GPS!”. La supremazia della macchina sull’uomo.
Le conseguenze del progresso si compongono anche di questi simpatici episodi. Progresso che ha come scopo ultimo quello di semplificare le condizioni di vita dell’uomo, attraverso varie strade. Pensiamo ad esempio all’invenzione della macchina a vapore e alla successiva rivoluzione industriale. Estremizzando (ho detto: estremizzando) si può dire che se qualche secolo fa l’uomo si sottoponeva a fatica fisica era senz’altro per necessità, oggi lo fa più per virtù: ne è un segnale il sovraffollamento di qualunque palestra o centro fitness.
Nelle conclusioni dell’articolo citato in apertura scrivevamo:
“Diversi studi hanno dimostrato come la necessità di aguzzare l’ingegno ha portato l’uomo a sviluppare il cervello in maniera considerevole, con un apice in termine di dimensioni nel periodo rinascimentale, tra fine del Medioevo e l’inizio dell’Età Moderna. Da allora, la diffusione della comunicazione, che ha permesso la condivisione delle idee di pochi alla portata di tutti, ha avuto come conseguenza da una parte il miglioramento della qualità della vita grazie ad invenzioni e scoperte, ma dall’altra una lenta ma provata riduzione della massa cerebrale, perdendo circa uno o due etti in media.”
Quanto riportato è un fatto scientificamente provato, non una congettura. Se il progresso ha portato, come dicevo prima, a usare la forza fisica più per virtù che per reale necessità, non corriamo il rischio che lo stesso progresso ci porti ad utilizzare l’intelletto alla stessa maniera? Non si corre il rischio di assuefarsi alle “tecnologie che disabituano a pensare”? Non si corre il rischio di avvicinarsi concretamente al punto di singolarità tecnologica?