L’intervento della scorsa settimana a firma di Alessandro mi ha dato il la per proporvi un’elucubrazione (non potendo usare termini meno eleganti e più prosaici) che coltivo da qualche tempo. Iniziamo da una premessa rigorosa: il significato di fotografia è scrivere con la luce.
Tutto ciò che vediamo non è altro che, in maniera molto poco romantica, una porzione della radiazione luminosa che viene riflessa dai corpi che da essa vengono colpiti. Macchina fotografica e luce stanno al fotografo come pennino e inchiostro stanno allo scrittore. E’ compito del fotografo, mediante tecnica, fantasia e sensibilità, utilizzare questi strumenti per comunicare.
Ma fino a che punto si comunica mediante la fotografia e quando si inizia a comunicare mediante un’altra forma d’arte?
La prendo larga: al di la della “battaglia dei megapixel” o dei “lati oscuri della tecnologia” di cui parlava Alessandro, l’avvento del digitale nell’ambito fotografico ha avuto sicuramente almeno un pregio: ha permesso a molte più persone di avvicinarsi alla fotografia in senso stretto, in quanto semplifica enormemente una serie di operazioni per le quali fino a non moltissimi anni fa era necessario disporre di attrezzatura e spazi non alla portata di tutti.
Sto parlando, ad esempio, di tutto ciò che è definibile come sviluppo in camera chiara (cioè le operazioni necessarie allo sviluppo dei file RAW), che si contrappone al tradizionale sviluppo in camera oscura: ora è sufficiente disporre di un comune PC, qualche anno fa era necessario allestire un locale atto allo scopo, con pesanti tendoni su porte e finestre, vaschette ricolme di opportune soluzioni chimiche e via discorrendo.
Lo sviluppo in camera chiara, tuttavia, tende sempre più facilmente ad ibridarsi con operazioni che poco hanno a che vedere con lo sviluppo in senso stretto, ma che si avvicinano molto a ciò che rientra nell’ambito del fotoritocco, pur senza arrivare agli eccessi del mondo pubblicitario.
La mia elucubrazione nasce da un esperimento che ho condotto con alcuni amici, loro insaputa. Tra una serie di fotografie casuali ho mostrato loro un’immagine realizzata partendo da una foto un po’ piatta a livello compositivo, ma ritoccata enfatizzando tonalità e colori in maniera piuttosto ruffiana, alterando anche di parecchio l’immagine di partenza. Il risultato? In molti, vedendo questa immagine, esclamano: “Ma che bella foto!”
Siamo sicuri si tratti ancora di una fotografia, intesa in senso stretto? Certo, la base è pur sempre una foto, ma il risultato è qualcosa di profondamente diverso. Il che non è necessariamente qualcosa di spregevole o negativo, ma talvolta accade che questo risultato sia ottenuto in maniera forse inconsapevole, andando in ultima analisi a “tradire” il fruitore dell’opera.
Oppure, molto più spesso, si tratta del frutto di una approccio che scaturisce da uno dei tanti vantaggi della fotografia digitale, la possibilità di riparare facilmente gli errori commessi in fase di scatto: “scatto come mi pare, tanto poi le posso ritoccare”. Ma, in questo caso, che cosa si vuole davvero comunicare?