Ogni azienda ambisce a porre sotto controllo diretto la maggior parte possibile dei fattori che influenzano la sua redditività e, in ultima analisi, le sue chance di sopravvivenza e successo. Il dilagare di Google e di Internet negli ultimi anni, ha forzato un cambiamento delle regole del gioco. Nel caso dei giornali, Google ancor più che la rivoluzione di Internet in sé, ha dettato nuove regole rispetto alle quali le alternative sono conformarsi o sparire.
Eccoci quindi al tema della settimana: Rupert Murdoch vs Google, col primo che minaccia di sparire dai risultati del motorone di Mountain View. Qualcuno liquiderebbe la questione in fretta, come la lotta del vecchio contro il nuovo che avanza; qualcun altro, forse più attentamente, potrebbe giudicarla nient’altro che una lotta fra modelli di business.
Il primo, quello della carta stampata, vecchio e polveroso quanto si vuole ma di provata sostenibilità, perlomeno fino agli ultimi anni. Il secondo, quello di Google, fondato su presupposti completamente diversi: indicizzazione, accesso libero, remunerazione da pubblicità.
Come sottolinea Tagliaerbe, ad oggi siti di qualche peso potrebbero vedere anche i 3/4 circa del loro traffico provenire da motori di ricerca (Google, ovviamente, in testa). Dato che il traffico, in termini pubblicitari, è proporzionale agli incassi, e dato che il modello di business prevalente nell’editoria online è quello ad-based, qualcosa di simile ai 3/4 del fatturato pubblicitario di gruppi editoriali anche importanti, potrebbe dipendere da Google.
Domanda: non sono gli editori a produrre quei contenuti che sono poi la linfa vitale di Google? Come mai è Google a tenere 3/4 del loro business in mano, e non loro a tenere in mano 3/4 del business di Google?
La risposta ci arriva leggendo il commento di Luca Lani, la cui ratio fondamentale è per l’appunto: dagli editori dipende una buona fetta del business di Google. Se e solo se sapranno consorziarsi, potranno imporre un modello che assicuri loro profitti certi in ragione del proprio peso. E magari, a quel punto, arriverà qualche concorrente di Google ad offrirgli la piattaforma tecnologica.
Il punto dolente per le testate giornalistiche, il perno della loro resistenza a Google, capitanata dal tycoon australiano, è la fidelizzazione del lettore rispetto alla testata. Ad oggi in effetti, poco importa se un giornale ha un secolo di storia, se ha fatto scuola nell’ambito del giornalismo d’inchiesta, o se si avvale della collaborazione di prestigiosi commentatori: ai tempi di Google la qualità percepita dal pubblico è “good enough”, e la pluralità di fonti – non importa se sono tutte la copia rimasticata di un unico originale, o l’una il riflesso dell’altra – consente al pubblico di affrancarsi dal bisogno di pagare per essere informati. Conseguentemente, di quel che è gratuito, non ci si può lamentare più di tanto.
Non lasciamoci fuorviare dalla prevedibile obiezione “i media tradizionali non hanno qualità”: se la qualità non c’è, non sta né dentro l’articolo riportato in Google News (chi lo usa sa quanto poco qualitativi siano in primo luogo i criteri con cui Google seleziona le fonti per ogni specifico topic), né nel contenitore originale, e Google non può ancora vantare dei criteri di qualità o tracciabilità nella selezione delle fonti giornalistiche che aggrega. Se però il contenuto è fruito dentro al contenitore originale, la testata può fidelizzare il lettore e magari trasformarlo in un cliente pagante. Se è “spiluccato” da un aggregatore, no.
Proviamo invece a domandarci: quanto l’attuale configurazione search – centrica della rete, quanto il “dogma” del tutto gratis, quanto l’esistenza di produttori di contenuti a manovella che scrivono solo per “rancare” su Google News, quanto la valorizzazione nelle SERP di aggregatori e rimasticatori piuttosto che fonti originali, quanto l’aleatorietà del flusso di visite da motori di ricerca, insomma quanto tutto questo, mette a rischio la sostenibilità economica del giornalismo di qualità?
Dalla risposta a queste domande non avremo certo la soluzione finale al tema delle news sulla rete, ma perlomeno un punto di vista diverso per guardare ai sempre più frequenti segnali d’allarme lanciati dai protagonisti del newsmaking.