Circa un anno fa abbiamo cercato di dare una risposta ad una delle domande, spesso insolute, che i non addetti ai lavori si pongono quando si parla di retrogaming.
Perché recuperare le console che hanno fanno fiasco?
Possono esserci ragioni sentimentali, il pezzo di plastica quindi viene associato ad un periodo particolarmente felice e spensierato della propria vita, ma anche motivi meramente collezionisti; un prodotto venduto in una serie limitata di unità è bramato in quanto tale dagli appassionati.
Nella nostra rubrica settimanale ci siamo occupati di svariati singoli esempi (e continueremo a farlo nei prossimi appuntamenti), basti pensare all’Apple Pippin o al Sega Neptune.
E l’abbiamo fatto perché i flop sono importanti in quel complesso processo di ricostruzione della storia dei videogiochi.
I percorsi ed i destini delle società coinvolte nell’industry sono state profondamente segnate da prodotti di successo tanto quanto dai fallimenti e le relative sbagliate scelte manageriali.
In quel tipico effetto spesso definito “sliding doors”, anche una sola console può mutare il corso dell’intero business; basti pensare al prototipo SNES-CD da cui nacque la Playstation.
D’altra parte non sono solo i produttori di hardware a sbagliare, ma anche le software house.
Inauguriamo dunque con l’articolo odierno quel filone di videogiochi dall’enorme potenziale (e spesso budget messo a disposizione) ma modesti risultati.
“Cosa sarebbe potuto diventare se solo…”
E’ una frase che penso ognuno di noi avrà sentito pronunciare; sul lavoro, a scuola, nello sport continuamente associato ai classici campioncini in erba.
La promessa mancata è un ritornello comune anche nel mondo dei videogiochi. Molto spesso è il risultato di quelle trasposizioni frettolose da personaggi nati nel mondo dei comics&cartoons e dello spettacolo in generale.
Il produttore in una logica di marketing vuole battere il chiodo finché è caldo e decide di trasformare l’icona della carta stampata o della pellicola in zainetti per bambini, giocattoli e sì anche un videogioco.
Il caso di quest’oggi può essere accomunato in parte a questa classica sequela di errori. In parte però, perché si tratta di una delle saghe più conosciute per quanto riguarda l’animazione giapponese e perché l’errore non è stato unico.
Per i pochi profani Hokuto no Ken è il manga che narra le gesta di Kenshiro, un guerriero costretto a vivere e combattere in un’epoca postatomica.
Nato nel 1983 dalla penna ed inchiostro di Tetsuo Hara e Buronson e pubblicato su Shonen Jump, una delle più famose testate di manga giapponesi, diventa subito un bestseller, tanto da convincere la Toei Animation a produrne la versione animata. L’anno successivo verrà trasmessa in Giappone ed in altri Paesi tra cui l’Italia dove acquisterà notorietà grazie al circuito di numerose reti locali sparse sul territorio nostrano.
Il mix di arti marziali, filosofie orientali tra cui il bushido e la critica degli autori alla violenza della società contemporanea ne fanno uno dei titoli di maggior successo dell’intera produzione giapponese, tanto che la traduzione del manga originale sbarcherà in tutto il mondo, compresa l’Italia ad opera della (defunta sic!) Granata Press.
OAV, giocattoli, film (recente la proiezione della trilogia). A distanza di più di 25 anni dalla sua creazione il fenomeno sembra ancora non essere arrivato a saturazione.
Ovviamente in questo contesto l’industria dei videogiochi non poteva rimanere a guardare.
Ad oggi, tra le varie versioni e porting esistenti si contano una trentina di titoli che portano la scritta “Hokuto no Ken”.
La stragrande maggioranza di questi sono, per usare un tecnicismo romanesco, delle “sOle” inenarrabili.
Non è un caso d’altra parte che della trentina menzionata poc’anzi pochissime sono state le trasposizioni occidentali tra cui ricordiamo Hokuto no Ken : Shin Seikimatsu Kyūseishu Densetsu alias Last Battle nella versione internazionale, esempio-scempio di come una censura becera può alterare un capolavoro (capolavoro il manga non il videogioco intendiamoci).
Il primissimo gioco, datato 1986 era un’avventura grafica, sviluppato da Enix e rilasciato per NEC PC e Fujitsu FM-7.
Il secondo inizialmente previsto per Mark III portato poi su PS2 prima e sul circuito Virtua Console per Wii cambiò radicalmente genere passando allo scrolling action game.
Nello stesso anno Toei stessa comincia a “prendersi cura” di Ken anche sul lato video ludico e cominciano, incredibile a dirsi, i veri e propri disastri.
Last Battle a parte il FamiCom ospita altri 3 episodi, Fist of The North Star come beat’em up ed Hokuto no Ken 3 e 4 come J-RPG.
Il genere non facilita la commercializzazione extraterritoriale ed infatti rimarranno come molti dei seguiti solo nipponici o acquistabili tramite i soliti canali di mercato parallelo.
D’altra parte, se si pensa ai vari Final Fantasy o Star Ocean (tanto per citare due delle riuscite saghe J-RPG nate sempre su FamiCom), sfondare nel mercato occidentale sarebbe stato possibile a patto di presentare prodotti all’altezza.
Le disgrazie cessano di tartassare il piccolo Nintendo ad 8 bit per trasferirsi sul fratello maggiore a 16, il Super Famicom (o SNES a seconda della regionalizzazione preferita).
La nomenclatura seguirà quella cominciata con la precedente piattaforma ed il primo titolo ospirato sarà Hokuto no Ken 5: Tenma Ryusei Den Ai Zetsusho, un altro RPG che prende le distanze dallo storyboard originale e vede le sacre scuole di Hokuto, Nanto e Gento allearsi contro un potente nemico comune. Tentativo apprezzabile, risultato mediocre.
Il capitolo 6 e 7 sono quelli che più mi colpirono. Da appassionato di scrolling beat’em up, gli anni ’80 e l’inizio ’90 mi hanno dato, così come a molti di voi immagino, notevoli soddisfazioni.
Double Dragon, Final Fight, Streets of Rage, Mutation Nation, Golden Axe.
I giochi capolavoro senza tempo venivano pubblicato a fiotte. Per questo, considerate il materiale a disposizione, il carisma del personaggio era lecito aspettarsi qualcosa di ben fatto.
Il numero 6 rimane impresso nella mia memoria. A quel tempo, senza Internet (eh bella vita i giovanissimi di oggi), la rivista rimaneva IL mezzo principale per informarsi, in particolar modo per quanto riguarda il mercato import/parallelo, un mercato che in piccola parte giungeva sulle sponde occidentali, privandoci di veri e propri capolavori.Consolemania era una delle riviste di riferimento, non solo per lo staff di cui era composta ma anche per la tempestività delle informazioni.
In ogni uscita mensile si dava spazio anche ai videogiochi giapponesi. In uno dei primi numeri (potrebbe essere l’11 ma vado a memoria) trovava la sua dimensione anche Hokuto no Ken 6.
Il voto era stato un misero 68 (o 70?) su un massimo di 100.
I lettori di Consolemania sanno benissimo che le recensioni seppur accurate, colorate e piene di humour giornalistico non lesinavano certi voti positivi.
Giochi ben realizzati ma certo non capolavori veleggiavano spesso sopra il 90.
Quindi un range tra il 60 e il 70 voleva significare solo una cosa: disastro.
Il character design rispecchiava abbastanza la fedeltà del manga ma le tecniche, le meccaniche di combattimento e la realizzazione grafica degli altri elementi come i fondali risultava assolutamente insufficiente.
Un’occasione sprecata dunque, che la Toei continuò a reiterare con il settimo capitolo su Super Famicom e poi di seguito su piattaforme di generazioni successive.
Non sono mancati i Kenshiro di discreta fattura, in particolar modo il beat’em up 1-on-1 di piuttosto recente uscita su PS2 (dal titolo Hokuto no Ken: Sinpan no Sousousei Kengo Retsuden, porting del coin-op datato 2005) e di cui avremo modo di parlare più avanti.
Resta il fatto che Hokuto no Ken rappresenti il perfetto simbolo di come un’autentico aggregatore di passioni ed interessi ed icona del mondo dei fumetti non sia stato in grado di avere la stessa cura e sorte anche nel mondo dei videogiochi.
Un esempio tra i tanti che si possono fare e faremo su queste colonne.