Da quando frequento Internet, mi capita di osservare il modo in cui questo nuovo medium, o meta-medium, convive con quelli che gli preesistono. Fra questi, mi pare di notare che la rete abbia imparato molto dal giornalismo tradizionale, nel momento in cui ha dovuto uscire dallo status di “fatto di nicchia”, rivestirsi di responsabilità e credibilità, entrare nella vita quotidiana di un pubblico allargato, interessato alla soddisfazione di un bisogno più che all’analisi dello strumento.
Questa fase è da tempo conclusa, tant’è che sempre più spesso abbiamo modo di osservare un trend opposto: il giornalismo tradizionale, nel male e un po’ anche nel bene, sta imparando, studiando, scopiazzando dalla rete.
Il più grande merito scientifico del giornalismo professionale, è forse il metodo che negli anni ha creato, costruito attorno al tentativo di raggiungere l’obiettività. Una gara a rincorrere la propria ombra, argomenterà qualcuno in vena di dissertazioni filosofiche, ma comunque un obiettivo nobile.
Il problema dell’obiettività è in effetti serio, la sua decodifica tutt’altro che a portata di mano. Da una parte c’è da dubitare di chi vanta di raccontare i fatti, la “realtà”, dall’altra però le opinioni, specie se contrabbandate come analisi serie, documentate e credibili, hanno il vizio di diventare “pret-a-porter”, ovverosia pastrocchi premasticati rispetto ai quali al pubblico si richiede adesione più che comprensione.
Face value è la formula, come sempre icastica, che gli anglosassoni usano per identificare quell’attributo particolare dell’informazione offerta come un dogma, da accettare o rifiutare tout-court.
Contro la religione del face value esiste un antidoto, un uovo di Colombo situato in posizione mediana fra informazione pretesa “oggettiva” ed opinione: si chiama tracciabilità. Non pretendo di raccontarti la verità assoluta, ti passo i fatti, poi ci metto un’opinione e magari ti spiego come me la sono formata. A te le conclusioni.
Quella di non sostituire le proprie opinioni con l’arbitrio del pubblico è un’ottima abitudine, ahimè in via di estinzione: l’evoluzione dello scenario mediatico ai tempi di Internet, è probabilmente una causa di questo processo.
La natura ipertestuale della rete rende infatti complesso il lavoro di tracciabilità, sicché i fatti che un articolo dà per supposti, per poi lanciarsi in opinioni, ad un occhio più attento – già, ma quale occhio ha ormai tempo di essere attento? – potrebbero venir fuori essi stessi come l’opinione di qualcun altro.
In seconda battuta, il web 2.0, lo user generated content, creato da gente come il sottoscritto, ma anche da qualcuno non altrettanto attento a schivare gli insulti dei lettori, è strutturalmente più orientato sull’opinione che sui fatti, essendo per l’appunto generato da persone che nella vita fanno surf, lavorano alle poste, friggono patatine al fast food.
Ultimo ma non ultimo, assistiamo ad una progressiva parcellizzazione dell’informazione: dai “vecchi” feed con le prime tre righe di un articolo di tre pagine (che bastano ahimè il 90% delle volte), alle twittate da 140 caratteri.
Tutto questo riporta al centro, come grande sconfitto, o perlomeno come probabilissimo perituro, il tema del metodo, della verifica delle fonti, del ruolo “pedagogico” del produttore di contenuti, che aiuta il suo lettore ad imparare, piuttosto che forzargli ipodermicamente un’opinione nel cervello, a colpi di frasi ad effetto, magari confezionate nello status di Facebook o in una twittata.
Che ci piaccia o meno, e concludiamo, tutto ciò ci sta conducendo alla sola face value come criterio di selezione, attendibilità, rilevanza, delle notizie, delle non-notizie, dei semplici accadimenti. L’esperto cede così il passo all’influencer, la competenza alla popolarità, la professionalità alla faccia tosta.
È la rete del 2009 bellezza: se non applichi al tuo faccione i criteri del marketing di prodotto, nemmeno il botulino potrà salvarti dall’irrilevanza.