Da qualche mese a questa parte sento pronunciare con crescente insistenza la formula “engagement di influencer”. Vorrei oggi soffermarmi sui significati che leggo dietro questa ennesimo, sgradevole, anglicismo.
Per influencer s’intende un personaggio che, a qualunque titolo, si ritiene abbia presa su un pubblico interessante. Usando una formula un po’ vecchio stile, parleremmo di un opinion leader. Che sia Ashton Kutcher, Oprah Winfrey o qualcuno di quei figuri la cui popolarità è cresciuta con le sole logiche presenzialiste (Lele Mora docet) ben note ai tempi del “web 2.0”, l’influencer è un soggetto cui si attribuisce facoltà di spostare opinioni.
Che poi egli sia influencer di un gruppo ristretto di altri sub-aspiranti-influencer, che se la suonano e se la cantano fra di loro, o di un branco di adolescenti che preferiscono sognare la celebrità di cartapesta da “blogger dell’anno”, piuttosto che quella di pop star de noantri stile “Amici”, poco importa.
Veniamo all’engagement, letteralmente “attrazione, coinvolgimento di interesse o attenzione”.
Ingaggiare, mia volgarissima traduzione, un influencer, significa interessarlo in una causa o iniziativa, ma anche metterlo al servizio di uno scopo.
Nella fattispecie le aziende ingaggiano influencer per dare visibilità al proprio marchio e ai propri prodotti/servizi. In modo discreto e spesso viscido – vi sarà capitato di interrogarvi sul coinvolgimento di figure di qualche fama, di estrazione non tecnologica, nel mondo della telefonia cellulare – l’influencer diviene ambasciatore a cottimo di un marchio, sfrutta gli spazi 2.0 a sua disposizione per sensibilizzare il pubblico, – visitatori, follower, “amici” o “fan” che siano – sui messaggi rilevanti per il committente.
Un lavoro ben mascherato dalla parvenza amicale dei social network, da cui le difese di ufficio più ricorrenti dell’influencer: “parlo di ciò che m’interessa coi miei amici, a te che te frega?”. Peccato che si parli essendo pagati per farlo, che questo non sempre sia del tutto chiaro agli “amici”. Amici i quali, nel mondo “reale”, forse non reagirebbero molto bene se, invitati a cena, si vedessero decantare prima del pasto un completo set di pentole acciaio inox 18/12 al modico prezzo di 99 euro.
Ma della sorte di costoro potrebbe anche non importarcene un tubazzo: ognuno è libero di scegliersi gli “amici” che preferisce.
Ci sono però due conseguenze di cui forse dovremmo tener conto:
- il parere prezzolato di un influencer è pubblicità a tutti gli effetti, ma non passa come tale: quand’è che la solerte autorità competente se ne renderà conto, come è già successo negli USA?
- l’influencer si porta a casa con poca spesa: dalle tartine fino agli omaggi di prodotto, o qualche biglietto da cento per i più bravi; nel frattempo gli investimenti in pubblicità, che spesso da soli finanziano la professionalità e l’esperienza del mondo giornalistico (ove presente, ovviamente), si contraggono a favore di operazioni di cui al punto 1.
Se senza pubblicità le testate giornalistiche schiattano, e se la pubblicità che si toglie a loro se la mettono – in minima parte peraltro – in tasca i nostri cari friggitori di patatine e maestri elementari tramutati in influencer, l’informazione corrisponderà sempre più a loro, ovverosia sempre più a un flusso indistinto di melma marchettosa, condita da commenti e dettagli personali. Un flusso in mezzo al quale anche i contenuti di valore faticheranno a risaltare.