Sempre più spesso, navigando in giro per la rete, m’imbatto in presentazioni e video che cantano a gola aperta le magnifiche e progressive sorti del nuovo web sociale. Questi contenuti, lungi dal farmi saltare di gioia gridando “voglio farne parte anch’io!”, mi aiutano non di rado a capire meglio tutto ciò che non vorrei mai che la rete diventasse.
Nella fattispecie questo video, passatomi qualche giorno fa con un ghigno sinistro dal mio “compagno di banco”, nasconde in mezzo al solito blablabla, prospettive a mio modo di vedere catastrofiche.
Mi domando allora: è possibile che ciò che in me ispira brivido, terrore e raccapriccio, possa suscitare in altri il più sfrenato e giallognolo entusiasmo? Sono completamente rimbecillito, o assisto ad un processo di rimbecillimento collettivo?
Il video essenzialmente tenta di trasmettere l’idea che, rimanendo al di fuori dei social network, individui e aziende sono destinati a fare la fine del brontosauro. A complemento di questa teoria, non manca tuttavia qualche “visione” – invero deprimente – del mondo social-izzato. Vediamo di che si tratta.
In mezzo al solito yadayada di numeri, percentuali e punti esclamativi, un dato merita di essere riportato per rendere l’idea dello spessore culturale del contenuto. Secondo il nostro ispirato profeta, il 78% del pubblico si fida delle “peer recommendations” (raccomandazioni su blog ed altri network amatoriali), mentre solo il 14% si fida della pubblicità.
Possibile che il 78% (di quale campione poi non è dato sapere, in perfetto stile 2.0) non abbia capito che, come testimoniato qui e altrove migliaia di volte, le “peer recommendations” sono a tutti gli effetti pubblicità? Non ho mai creduto nell’intelligenza della massa, ma questi dati valicano di un abisso i limiti del mio pessimismo. Passiamo oltre.
Nella invero breve sezione “visionaria” compare una prospettiva agghiacciante. Un giorno non sarà più l’utente a cercare notizie, saranno le notizie a trovare l’utente; ma soprattutto: Un giorno non sarà più l’utente a cercare prodotti, saranno i prodotti a trovare l’utente tramite social network.
Come faranno, in pratica, le caramelle Pistolazzi a trovare i loro clienti? Semplice: la Pistolazzi Inc. non dovrà far altro che passare al setaccio, evidentemente dietro remunerazione della società titolare del network, i dati ivi presenti, per poi inviare messaggi mirati a tutti i prospect.
Se fino a ieri questo lavoro veniva svolto, nel rispetto delle normative sulla privacy, con metodi euristici, ai tempi del social network, con gli utenti che si privano volontariamente di una porzione della loro privacy, le aziende non devono e sempre meno dovranno far altro che acquistare pacchetti di dati per far emergere la loro clientela.
Il guadagno dei social network rappresenta dunque – come del resto già accennato – la trasformazione del grande fratello in un modello di business. Non nel senso violento del termine: semplicemente FB lucrerà dall’essere un’entità che possiede, ed è abilitata a vendere, i dati personali di ognuno. Magari un bel giorno, salteranno fuori “account premium”, che daranno diritto ad accedere, a vari livelli, ai dati personali altrui, per finalità di marketing o chissà cos’altro.
Come previsto da Neil Postman (Amusing Ourselves to death, 1985), sono le previsioni di Huxley più che quelle di Orwell che si apprestano ad avverarsi. Il controllo non verrà infatti imposto e mantenuto con la violenza, ma con l’abbandono volontario e consapevole della privacy, ottenuto in cambio della prospettiva una vacua socialità virtuale.
Al confronto con questa prospettiva, anche le armi di Google sembrano spuntate: per estrarre dati utili e monetizzabili sugli utenti, il motorone deve creare inferenze a partire da un’enorme mole di dati, costruire ipotesi sulla correlazione fra parole/frasi e attitudini/propensioni. Un lavoro euristico e complesso che restituisce risultati in qualche misura aleatori.
Molto più facile quello di Facebook, un luogo in cui ciascun utente provvede spontaneamente ad indicare i propri interessi, ad offrire informazioni sui suoi comportamenti, sulle sue preferenze d’acquisto, sulle sue opinioni.
Ecco il motivo per cui il vero nemico del business di Facebook è l’irrilevanza delle informazioni in esso contenute, ossia la mancata congruenza fra opinioni e preferenze ivi espresse, e ciò che in realtà saremmo disposti a fare, comprare, visitare, idolatrare.
In una parola, la sua assoluta artificialità: informazioni irrilevanti, spurie, indotte – provenienti dai vari generi di artifici, come quello di vendere amici – non sono monetizzabili, dunque non rappresentano una base solida su cui costruire un business.
Se tuttavia è l’artificialità di FB a salvarci dalla prospettiva di un controllo globale, quasi quasi mi auguro che i citati “nuovi geni del marketing” continuino a spadroneggiare.