Per quella che ormai possiamo considerare una serie, intitolata “È giusto pagare… ?”, entriamo nel nocciolo della questione editoriale, prendendo in considerazione la figura del giornalista professionista.
Si tratta di una professionalità che da qualche anno a questa parte è sotto un fuoco incrociato di critiche, fra cui l’attribuzione di gravi responsabilità sullo stato di salute delle democrazie occidentali, e della democrazia italiana in particolare.
Anche in questo caso darò sul tema una mia lettura personale, come sempre senza pretesa di esaustività e aperta a contributi e critiche costruttive. Altri contributi sul tema della coesistenza fra web e editoria li trovate qui.
Inizio ricapitolando quelli che – fin da prima della rete e delle critiche alla professione venute dopo la rivoluzione di Internet – rappresentano per me i pilastri del mestiere giornalistico (fatti salvi i punti di competenza e imparzialità, accennati la scorsa settimana):
– aggiornamento sui fatti, quelli di diretto interesse (giustizia per un cronista giudiziario, finanza per un giornalista finanziario etc.) più una mole di fatti collaterali utili a costruire un contesto;
– capacità espositiva;
– capacità selettiva, nel diluvio di notizie che, anche da prima di Internet, inonda il pianeta.
Partiamo oggi dal primo punto: da quando l’Ansa e le maggiori agenzie internazionali si sono lanciate sulla rete con servizi gratuiti al pubblico, rivestendo il doppio ruolo di “grossisti” e “rivenditori”, il giornalista si è visto scavalcare in una componente essenziale della sua funzione.
Nel frattempo, in forza della “disintermediazione” creata da Internet, è costretto a guardarsi, o a tentare di coesistere, con un ulteriore fenomeno: il citizen journalism, la cui ipertrofica produzione, batte sulla stessa nota dolente dei tempi di reazione, sincronizzati al ritmo forsennato con cui le informazioni arrivano sulla rete, con o senza giornalisti.
Privato del monopolio su quella che definirei la “registrazione del battito cardiaco” del settore di appartenenza, cosa resta del primo pilastro? Può la “disintermediazione” portata in larga scala e in ogni settore dalla rete, rendere infine superflua la professione giornalistica? Posso io, di converso, trasformarmi in un esperto di ogni materia che incontri il mio interesse, in un giornalista di me stesso?
Malgrado l’enorme flusso di notizie disponibile su Internet in tempo reale, l’abbattimento dei confini geografici, la progressiva e inarrestabile trasformazione degli utenti in produttori attivi di contenuti, è innanzitutto nella parola “mestiere” che vedo una risposta.
Proprio nella misura in cui il flusso è enorme e globale, tenergli dietro non è cosa da poco. Che si tratti di cronaca giudiziaria, di architetture dei microprocessori, di edilizia o pesca della carpa, l’aggiornamento è un processo oneroso in termini di tempo, per definizione non alla portata dell’appassionato degli stessi argomenti.
Essere aggiornati per lavoro, implica passare le 8-10 ore lavorative quotidiane nella comprensione del settore di cui ci si occupa, non certo le poche che i ritmi di lavoro lasciano allo svago e alla cura degli interessi personali.
Il che non significa che il giornalista possa vantare la miglior conoscenza possibile di ogni “verticalizzazione” del suo settore: al contrario è proprio una conoscenza “orizzontale” che gli consente di porre ogni elemento in contesto, di costruire collegamenti trasversali, di offrire analisi di ampio spettro.
Un professionista del settore X conoscerà meglio di un giornalista del medesimo settore, gli elementi specifici del suo lavoro, ma ugualmente potrà trarre beneficio da un approccio più trasversale, posto che all’aggiornamento abbia tempo e modo di provvedere da solo.
Nel frattempo una delle prime “pietre dello scandalo” nella disintermediazione in ambito news, si trova a dover fronteggiare l’ipotesi di una importante retromarcia: come abbiamo raccontato, la AP, prima agenzia di news al mondo, si trova a dover fare i conti con la frequente pratica del copia&incolla, che sta danneggiando il suo business.
Mi viene da pensare che con l’avvento della rete, il cambiamento dei modelli di business, e conseguentemente dei modelli di consumo, non abbia seguito necessariamente la logica della sostenibilità economica. Una considerazione questa, che pone in prospettiva anche il fuoco di fila che ha investito la professione giornalistica negli ultimi anni: se è alle spese delle funzioni vitali del giornalismo che la rivoluzione delle notizie su Internet è avvenuta, le conseguenze del fallimento del newsmaking professionale ricadrebbero sulla stessa rete e sui suoi utenti.
Il che non implica che la categoria giornalistica sia esentabile da ogni critica: al contrario, molti dei difetti che vengono oggi attribuiti alla professione, hanno la medesima natura di quanto abbiamo spesso su queste pagine criticato: accento sull’aggiornamento continuo piuttosto che sull’approfondimento, superficialità, mancata verifica delle fonti, insistenza su argomenti “di moda” piuttosto che su temi scottanti.
In quale altro modo potrà salvarsi il giornalismo se non invertendo questa tendenza, in direzione di una reale differenza rispetto all’approccio amatoriale che il primo decennio della rete ha così insistentemente fomentato?
Non è del resto un caso che, proprio quegli esperimenti indicati come i maggiori casi di successo del giornalismo 2.0, propongano un approccio tutt’altro che amatoriale ai temi di competenza: tanto Arianna Huffington (Huffington Post), quanto Michael Arrington (TechCrunch), devono il proprio successo a quegli stessi criteri e parametri (ivi comprese corpose redazioni full time) che hanno tirato avanti la carretta del newsmaking per più di un secolo.
Da loro, più che dal colorito mondo del “nanopublishing”, farebbe bene a re-imparare qualcosa la vecchia generazione di professionisti, sbarcata sulla rete: per assicurare a sé stessa il presidio su un asset, quello della cultura professionale circa il settore di appartenenza, di cui anche ai tempi della rete, potremmo trovarci a sentire la mancanza.