Ci sono tuttora numerose versioni circa la responsabilità di IBM rispetto all’apertura dell’architettura PC. La mia opinione è che IBM non avrebbe voluto né immaginava un’industria dei cloni, perché era ben consapevole del fatto che una pletora di competitor, capaci di produrre computer funzionalmente equivalenti al suo PC, avrebbe assottigliato drasticamente i suoi margini, come puntualmente è accaduto.
Del resto IBM è un’industria che sul fronte hardware ha sempre mostrato di credere nella chiusura delle piattaforme come acceleratore dell’innovazione, moltiplicatore dell’affidabilità e dei margini (sistemi come il PS/2 ne sono la riprova); una filosofia che, dopo il tramonto delle piattaforme chiuse, vede oggi in Apple l’unico portabandiera rimasto nel mercato consumer.
In questo nuovo venerdì di nostalgia informatica, ci ritufferemo dunque nei meandri dell’evoluzione del settore, per capire come il PC IBM, la sua trionfale campagna marketing e la nascita dei cloni, abbia compresso fino a soffocare centinaia di piattaforme alternative, quasi sempre molto più avanzate dell’IBM compatibile. Per farlo, ci avvarremo di un esempio emblematico della fine delle piattaforme proprietarie, ovvero uno dei primi caduti sull’altare della compatibilità: l’ACT Sirius 1, alias Victor 9000.
Come dicevamo, indipendentemente dalla volontà di IBM, nei primi anni ’80 il mercato dei cloni esplose, e prese così l’avvio uno dei grandi cambiamenti di paradigma dell’industria informatica moderna: il progressivo spostamento dei migliori margini dall’hardware al software. Bill Gates ne sa qualcosa.
Centinaia di produttori di computer si trovarono così, nei primi anni ’80, davanti a un bivio: proseguire con le architetture hardware proprietarie dei primi personal – Commodore PET, Apple II, TI99, TRS80 etc. – o piuttosto imboccare il già popolato segmento dei cloni e avvantaggiarsi della “compatibilità IBM”, innanzitutto in termini di compatibilità col parco software sviluppato per computer IBM, tramite l’uso di hardware specificamente sviluppato.
Se per i produttori che sceglievano la via dei cloni l’obiettivo era quello di massimizzare la compatibilità ed eventualmente incrementare le prestazioni e tenere bassi i prezzi, per chi scommetteva sulle piattaforme chiuse, l’opportunità di innovare sull’architettura era superiore, ma nel contempo serviva un grande sforzo sul fronte software: attrarre sviluppatori di applicazioni popolari o al limite svilupparle in casa, era una condizione indispensabile per conquistare quote di mercato in tutti i segmenti.
In questo periodo di transizione le vittime furono numerose, in particolare fra coloro che producevano sistemi destinati al mercato professionale non IBM-compatibili a livello hardware. Per inciso, quella dell’home computer è un’altra storia, legata a scenari di utilizzo diversi – videogiochi in primis – ed ha la sua prosecuzione naturale nell’ancora florido mercato delle console.
Con questo non intendo dire che i sistemi non IBM compatibili degli anni ’80, mancassero di caratteristiche hardware, espandibilità e parco software idonei per un impiego professionale: fu IBM che, con la sua straordinaria penetrazione in ambito business, cementò il successo della sua piattaforma, e quindi dei cloni, togliendo sempre più spazio a piattaforme alternative.
Fra i sistemi professionali che per primi hanno ceduto le armi di fronte alla marcia trionfale dei cloni troviamo il Victor 9000 di un certo Chuck Peddle, un computer prodotto per l’Europa da ACT (poi Apricot). Peddle non era un novellino del settore: come abbiamo già raccontato, al suo attivo troviamo il coinvolgimento nello sviluppo del Motorola 6800, la fondazione della gloriosa MOS e la creazione del celeberrimo 6502, nonché la realizzazione di un “embrione” di personal computer, la mainboard dimostrativa KIM – da cui Apple attinse per la creazione dell’Apple II – e il Commodore PET, uno dei primi e più popolari personal computer della storia.
Se il Victor 9000 negli USA andava a scontrarsi con il rampante mercato PC, popolato dallo schiacciasassi IBM e un numero crescente di cloni, in Europa arrivò, assemblato dalla britannica ACT col il nome di Sirius 1, con mesi di anticipo rispetto al PC IBM e la valanga di cloni al seguito. Per quest’ultimo motivo godette nel vecchio continente di un ottimo successo, dal punto di vista tecnico assolutamente meritato.
Il sistema – il cui prezzo base era di circa 2700 Sterline nel 1983 – nasceva attorno alla CPU Intel 8088 ed era in grado di far girare il CP/M del mitico Gary Kildall e l’MS-DOS. Dotato di una memoria di 128KB, espandibile a ben 896KB, utilizzava per la memorizzazione di massa due lettori floppy da 600KB o a doppia faccia da 1200KB, con velocità di rotazione variabile – si narra che hacker con velleità musicali, utilizzassero il rumore prodotto dal floppy per comporre musica – al fine massimizzare la velocità di accesso ai dati in qualunque parte del disco.
Oltre che sul fronte memoria, il sistema era espandibile nel comparto storage tramite controller+hard disk di dimensione fino a 30MB, mentre alla CPU 8088 a 4 Mhz era possibile affiancare un coprocessore matematico 8087. Il sistema offriva inoltre come opzione, la possibilità di essere utilizzato tramite penna ottica direttamente sul monitor: quante cose si possono fare con un 8088!
La tastiera del Victor/Sirius era equipaggiata con una MCU Intel 8048 e disponeva di funzionalità avanzate quali il controllo di luminosità e contrasto – che avremmo visto nel Mac solo molti anni dopo.
Dal punto di vista tecnico dunque, il Victor/Sirius aveva le carte in regola per prosperare nel segmento professionale ma, quando la corazzata IBM, dopo tentennamenti durati mesi, sbarcò nel vecchio continente col PC e la sua dote di software, Sirius, complici alcune complicazioni finanziarie della Victor, scomparve: un segnale che ACT, poi Apricot, avrebbe dovuto saper cogliere ma che, come vedremo presto, non colse.