Marketing della conversazione: dietro questa formula si celano gli sforzi “2.0” di molti esperti massmediologi dell’ultim’ora, volti a ricavare dallo sfruttamento di spazi gratuiti come blog e social network, informazioni preziose per le aziende circa brand e prodotti.
Informazioni che fino a ieri, e in certa parte tuttora, venivano ricavate con metodi scientifici tramite costose analisi di mercato, tramite il ricorso alla consulenza di esperti, strategic planner etc.
Nell’entusiasmo 2.0 generale, nelle conferenze più gettonate di questo periodo, tenute da illustri sconosciuti e celebrità “giornalistiche” fresche di nomina, ci si interroga tra l’altro su come le aziende possano meglio monetizzare quello che fin dagli albori di Internet, rappresenta lo spirito ispiratore delle comunità: lo scambio libero di idee fra utenti.
Prima di proseguire è opportuno un distinguo: se le aziende cercano di leggere sulla rete il “mood” delle community su marchi e prodotti, per effettuare, ove necessario, aggiustamenti di tiro, non c’è nulla di male. La puzza di marcio arriva quando, ormai invariabilmente, l’azienda diventa “proattiva”, ossia si adopera per creare un mood, per influenzarlo, per, eventualmente, incanalarlo a suo favore (sfruttando spazi gratuiti).
È esattamente in questa fase che i citati “professionisti 2.0” entrano prepotentemente in gioco, con strumenti sempre più subdoli per influenzare l’altrui opinione. Invece dovrebbero farci il favore di gettare la maschera, e smettere di nascondersi dietro a mansioni degne del generatore automatico di parole da new economy, ed improbabili ordini professionali il cui codice deontologico è da loro stessi stilato, per raccontarci di come stiano cercando di scardinare la tradizionale separazione fra contenuti e pubblicità, per imboscare messaggi mirati laddove l’utente si aspetterebbe pareri spassionati, esperienze personali, scambio di opinioni fra pari.
Dovrebbero, sì, ma non lo faranno, altrimenti gli toccherà forse di tornare a friggere patatine al fast food.
Il post remunerato regalando il prodotto recensito, il blogger quindicenne coinvolto in conferenze stampa e prove tecniche che non ha le competenze né gli strumenti per svolgere, il marchettaro mimetizzato nel forum e nel social network, sono i grimaldelli che molti di questi signori usano per aiutare le aziende a farsi pubblicità senza acquistare spazi delimitati e riconoscibili, nei tempi della crisi. “È il web 2.0 bellezza”, e puzza di marchetta da un chilometro.
Tanto che, prima o poi, qualche milione di lettori si troverà a scoprire che questa benedetta rete, reputata per anni la liberazione dell’individuo dalle catene del broadcast, altro non è se non un nuovo spazio per lo spadroneggiamento dei soliti furbi, che per l’occasione hanno solo cambiato cappello.
Certo, ad accorgersene ci vorrà un po’ di più, perché lo strumento è molto meno rozzo di quanto, ad un occhio attento, si sono da tempo rivelate le manipolazioni dei media tradizionali – i quali, specialmente in Italia, non hanno il diritto di chiamarsi fuori dai giochi della manipolazione, della sistematica omissione, finanche della menzogna su commissione.
Questo sfacelo lascia anche il fruitore di contenuti online più critico, con un’unica chance: imparare a costruirsi un’opinione e a non fidarsi di nessuno a priori, imparare – purtroppo – a filtrare attentamente le comunità sempre più invase dai furbi, con la stessa circospezione con cui approccia i media generalisti.
E a tenersi il suo parere per sé, piuttosto che cederlo a chi, è bene ricordarlo, se dovesse pagarlo un solo Euro, forse non lo chiederebbe affatto.
Intanto è utile ricordare che Google – il grande catalizzatore del movimento 2.0 – nel processo di formazione dell’opinione potrebbe non essere molto d’aiuto, mentre start up con le tasche bucate quali Facebook, sopravvivono – malgrado manchino palesemente di un modello di business – forse perché hanno il potenziale per diventare, nella beata e gaia ignoranza dei suoi fruitori che vi svelano gusti, preferenze, simpatie e antipatie, il più temibile e capillare grande fratello che mente umana possa concepire.
La morale della favola qual è? Per quel che mi riguarda, che le opinioni valgono soldi e non vanno regalate ai “furbi 2.0”. Che la partecipazione al ballo mascherato delle marchette, minaccia le community e lo spirito ispiratore della rete, cannibalizza gli spazi che invade e a lungo termine farà male anche alle aziende.
Le quali, nella misura in cui si servono di figure quali per esempio i “brand ambassador ” per costruire un’identità di marchio – dimenticando il proverbio “se il vino è buono non si chiede all’oste” – potrebbero vedere la loro reputazione sgretolarsi con la stessa rapidità con cui è cresciuta. Il bello è che anche allora qualcuno avrà il coraggio di lasciare sulla loro scrivania “buzz report” entusiastici.