Per la gioia di quelli che anche il primo maggio, come ogni altro venerdì, cadono in preda ad un attacco di nostalgia informatica, ci occuperemo di un capitolo interessante e poco conosciuto della preistoria informatica, che coinvolge due protagoniste della memoria collettiva informatica: Apple e Commodore.
Sempre felici di fornire ricche ispirazioni ai nostri (aspiranti) cugini poveri, procediamo ad esplorare uno dei primi capitoli della storia di Apple, datato 1976, un anno prima che Mike Markkula, venture capitalist della Silicon Valley, bussasse alla porta del garage di casa Jobs con una manciata di bigliettoni da investire nell’azienda.
Prima di entrare nel vivo della questione, è necessario introdurre un personaggio chiave degli albori dell’informatica: Chuck Peddle. Da dipendente Motorola e addetto allo sviluppo del processore 6800, Peddle riteneva che il più grande muro verso l’adozione di massa del microprocessore, fosse rappresentato dal prezzo. In un momento in cui nessuno aveva le idee chiare sul mercato di questo nuovo componente, e il computer era una nozione ben lontana da un uso “personal”, i prezzi di un Intel 8080 o di un 6800 erano alti abbastanza da scoraggiare l’hobbista.
Partendo da questo assunto, per quanto fosse ancora lontano dal concetto di personal computer, Peddle lasciò la Motorola e passò alla MOS, dove sviluppò prima il 6501 e poi il celeberrimo 6502. Le similitudini con il 6800 erano tali da valere a MOS una causa, conclusasi anni dopo con il pagamento di $ 200.000 a Motorola. L’obiettivo di ridurre drasticamente i costi della CPU era però centrato: il 6502 costava 25 dollari, grazie principalmente all’impiego di un sistema di progettazione che abbatteva drasticamente l’incidenza di prodotti difettosi.
Con un tale asso nella manica, Peddle indossò i panni dell’evangelizzatore e prese a girare per aziende, fiere e garage in cerca di potenziali clienti. Nel mentre una certa garage company con sede a Los Altos, preferiva il più abbordabile 6502 al 6800, per la realizzazione di una sorta di terminale avanzato, un “one board computer” secondo la formula del tempo.
Venuto a conoscenza degli esperimenti della coppia di giovani hobbisti, da buon evangelizzatore, Peddle li assistette – con un demo della scheda dimostrativa KIM-1 – nell’implementazione della CPU in quello che di lì a poco sarebbe diventato l’Apple I, una macchina molto diversa da quelle che lui immaginava fossero le applicazioni di un processore.
Di lì a poco si sarebbe accorto dell’errore. Nel 1975 MOS fu acquisita da una Commodore in affanno nel mercato calcolatrici e ansiosa di gettarsi in un nuovo business. Jack Tramiel, come Jobs e Wozniak, aveva un’idea di cosa fare col 6502, migliore di quella del suo stesso creatore: un personal computer. Nacque così l’idea di PET ma Tramiel, incerto sulla capacità dei tecnici Commodore di sviluppare e industrializzare in quattr’e quattr’otto un prodotto così diverso dalle calcolatrici, valutò la possibilità di acquisire un’azienda che avesse già esperienza nel settore.
Fu allora che prese forma l’idea di acquisire la neonata Apple e il suo progetto di “one board computer” che in seguito sarebbe divenuto famoso come Apple I. La trattativa, stando a quanto racconta Michael Moritz in The little kingdom – una biografia aziendale prima richiesta e autorizzata, quindi sconfessata da Jobs – fu piuttosto complessa. Chuck Peddle e Andre Sousan, Head of engineering di Commodore, approcciarono l’accoppiata Jobs-Woz in uno dei suoi momenti peggiori, con Woz che non era certo della partnership con Jobs, sostenuto dalla pressione dei genitori.
Secondo Moritz, Jobs richiese una forte somma di danaro per il progetto ($ 100.000) e un posto ben remunerato in Commodore per entrambi. La sua stima della Commodore tuttavia, crollò quando iniziò a prendere informazioni sull’azienda, sullo stile imprenditoriale di Tramiel, il che lo portò ad assumere un atteggiamento ostile nei confronti dell’operazione.
Questo atteggiamento suscitò l’ira di Wozniak padre, che da buon papà-coach-americano, si affrettò ad attribuire tutti i meriti del progetto a suo figlio e quindi a richiedere a quel giovane bohemienne sciatto e disordinato che era Jobs, di togliere il disturbo.
Dopo liti, pianti e riconciliazioni, prevalse la linea di Jobs e la trattativa con Commodore fu chiusa, anche – ad onor del vero – in ragione di un crescente scetticismo dei dirigenti Commodore e dello stesso Tramiel.
Il resto della storia lo conoscete: Apple e Commodore proseguirono su strade parallele, combattendo fino a un certo punto sugli stessi segmenti. La fine della competizione avvenne più per motivi di marketing che per meriti tecnici, dal momento che l’Amiga aveva le carte per lasciare il Mac nella polvere già nel 1985, ma questa è un’altra storia.
Quel che più importa è notare quanto il fallimento di un’operazione dopotutto marginale, dati i valori in campo, abbia condizionato la storia informatica, e soprattutto considerare che, per uno di questi aneddoti venuti alla luce, ce ne sono migliaia, magari molto più eclatanti, che rimangono seppelliti nella memoria degli artefici del miracolo della Silicon Valley o in vecchi libri e riviste che nessuno più legge.