In questo post vorrei ragionare con voi su un tema che mi sta piuttosto a cuore. Un tema di cui si è occupato Tagliaerbe sul suo blog – esprimendo posizioni con cui convengo al 100% – e che vorrei riprendere da un’angolazione diacronica.
Fin da quando esistono forum e newsgroup, esistono soggetti che sfruttano spazi in cui le persone si scambiano informazioni, pareri, materiale multimediale, in maniera neutrale e paritaria, per infilarci dentro campagne “imboscate” finalizzate a costruire/monitorare la reputazione di aziende committenti, diffondere informazioni di tipo pubblicitario laddove l’utente non se le aspetta.
Con l’avvento dello “user generated content” le modalità operative di questi soggetti si sono evolute, intaccando pesantemente il mondo dei blog, con la medesima finalità: ottenere visibilità gratuita.
Attenzione: non parliamo solo del pay-per-post, ma anche di azioni meno dirette, volte a guadagnare la “gratitudine” attraverso l’invio di materiale per prova – seguendo la sola logica della popolarità piuttosto che quella della competenza tecnica – e altre iniziative finalizzate a stuzzicare la vanità (=gratitudine) dei blogger.
Il terzo step evolutivo corrisponde all’apertura dell’epoca del social networking. Spazi gratuiti di conquista, da invadere con campagne virali, buzz e quant’altro si possa studiare per intervenire sull’opinione di un pubblico (che si reputa) generalmente ignaro delle logiche sottostanti.
Queste nuove modalità di approccio all’advertising online sono deleterie per quasi tutti i soggetti coinvolti. Per i lettori, in quanto eliminano la separazione fra spazi promozionali e spazi redazionali, degradando la qualità dell’informazione – una logica cui la carta stampata è già da tempo tutt’altro che estranea.
Per produttori di contenuti, che mettono in gioco la propria reputazione per un piatto di lenticchie. Per i contenitori, che vengono invasi dalla pubblicità senza tra l’altro riceverne una lira – sarebbe davvero demenziale se Facebook, in perenne crisi per la raccolta pubblicitaria, non catturasse questa fonte di guadagno.
Infine per i committenti, che risparmiano nell’immediato, ma nel lungo termine cannibalizzano la credibilità degli spazi che invadono, andando incontro a una progressiva riduzione del valore dei propri investimenti.
Gli unici soggetti che, perlomeno per qualche altro mese, guadagneranno da questo trend, sono per l’appunto le agenzie, le quali propongono ad aziende sempre più spaventate dalla crisi incipiente, l’azzeramento dei costi di acquisto spazi, a fronte di scarne parcelle per consulenze – i cui esecutori materiali sono magari i soliti 4 stagisti, pescati nel sempre più ampio calderone dei neolaureati a spasso.
Dal protrarsi di queste pratiche arriva una minaccia per i contenuti online tout-court, dato che la pubblicità (e il relativo introito) sta ormai alla rete come il famoso liquore al famoso party. Una minaccia proporzionale alla velocità con cui il pubblico si va rendendo conto delle logiche poco chiare con cui spesso vengono gestiti gli spazi a cui affidano i propri dati, le proprie opinioni, la propria fiducia.
Come reagire? In un mondo in cui le aziende tirano i remi in barca, i disoccupati abbondano, la blogosfera non monetizza e la pubblicità tradizionale zoppica, anche al netto del sempreverde c’è chi pagherebbe per vendersi (Hugo), la situazione è grigia.