Il DRM è uno dei leitmotiv del moderno universo tecnologico, in ragione di una crescente attenzione per la tutela del diritto d’autore nella sua accezione più ampia, sempre più minacciato da pratiche illecite, divenute da anni alla portata di chiunque.
Questa banale considerazione, costringe per esempio i produttori di sistemi operativi, in quanto attivamente interessati alla sussistenza di un ecosistema funzionale e remunerativo per tutti i soggetti economici coinvolti, a porsi il problema di rendere i propri OS un luogo sicuro per applicazioni e contenuti altrui.
Anche i produttori di hardware A/V risentono direttamente delle sorti di chi quei contenuti produce e distribuisce: questo li rende parte attivamente interessata alla tutela degli interessi delle major.
L’interesse dei detentori del copyright di software e contenuti, entra tuttavia in rotta di collisione con quello degli utenti finali, nel momento in cui le misure sviluppate per tutelare gli interessi dell’industria SW e audiovisiva, penalizzano la funzionalità dei dispositivi, ergono barriere all’utilizzabilità ben prima che i limiti della legalità siano sopraggiunti.
È il caso, per esempio, di HDCP, una tecnologia che prevede tra l’altro l’inserimento nei contenuti regolarmente acquistati, di un flag il quale, se una qualunque periferica coinvolta nella riproduzione non risponde qualificandosi come HDCP compliant, degrada intenzionalmente la qualità del segnale.
Un dispositivo del genere, si rivela peraltro un gioco a tutta vincita per i produttori di “ferro”: se pure l’utente non aveva intenzione di commettere crimini – cosa che a scopo precauzionale gli è stata impedita – magari coglierà l’occasione per andarsi a comprare un televisore nuovo.
Stante la reciprocità degli interessi in gioco fra l’industria del “ferro” e quella dei contenuti, è tuttavia sul consumatore che si riversano disfunzioni e costi legati al DRM. È infatti proprio il consumatore che finanzia, oltre ad ospitare i salotto, queste “succursali domestiche delle major” – con tutto l’overhead tecnologico che comportano – incluse nei dispositivi che acquista.
Analoga considerazione va fatta per i DRM sulla musica acquistata online: anche nelle prime fasi della distribuzione legale online, nella totale assenza di riferimenti legali idonei a definirne le peculiarità, i produttori si sono premuniti con lucchetti sufficienti a far dormire tranquille le major (mentre GB di materiale protetto fluivano indisturbati nelle reti P2P).
Inutile ricordare che il ricorso di ciascuna piattaforma musicale, a DRM proprietari, ha bloccato l’idea stessa di interoperabilità – pensate se i CD della Sony BMG potessero essere riprodotti solo su lettori CD Sony – a danno della concorrenzialità del mercato e dunque degli interessi dei consumatori.
Nel totale caos legale, la Sony si è addirittura permessa di danneggiare attivamente il consumatore, impiantando un rootkit sui propri CD, atto a scoraggiare la funesta pratica del ripping – anche laddove questa era tutelata da leggi ispirate alla dottrina del fair use.
So benissimo che col tempo i governi di quasi tutto il mondo si sono prostrati alla pressione delle lobby, e che molte delle fattispecie da me inquadrate, sono passate al di qua della barriera della legalità, calpestando nel mentre diritti consolidati come la copia di backup – ultimo collante che vincolava l’azione dell’acquisto al contenuto piuttosto che al contenitore.
Mi pare tuttavia innegabile che le disfunzioni esperite dagli utenti non intenzionati a violare la legge, crescano più o meno senza soluzione di continuità, mentre nelle alte sfere della distribuzione (elettronica vs tradizionale), imperversano ancora interminabili lotte di potere per la spartizione della torta.
Alla domanda ma perché il costo del DRM deve ricadere sugli utenti, che già ne subiscono le disfunzioni? le industrie coinvolte non hanno ancora trovato una risposta univoca e convincente, il che tra l’altro non aiuta nella lotta contro la “via facile” del download illecito di materiale (s)protetto, a portata di mano per qualunque utente poco più che principiante.
La questione è dunque destinata a continuare a svolgersi nei termini di: vendita legale di contenuti online minoritaria, pirateria dilagante, cause legali e FUD a iosa, DRM sempre più pervasivi e via da capo?
Malgrado le recenti, timide aperture delle piattaforme di distribuzione musicale online, temo di sì. Ho l’impressione che questa situazione si protrarrà fino al momento in cui si deciderà di legare la fruizione legale di contenuti ad altri costi diretti al consumatore, come il canone broadband (ne abbiamo parlato qualche giorno fa) o l’acquisto di un particolare dispositivo. O se piuttosto, similmente a come accade per la telefonia mobile, sarà attorno ai contenuti che ruoteranno i costi, e i dispositivi verranno forniti tramite un canone mensile onnicomprensivo.
In ognuno di questi casi tuttavia, potremmo non liberarci del DRM…