I’m afraid of Americans… così recitava qualche anno fa il titolo di un singolo di successo di David Bowie, scritto a quattro mani col leggendario Brian Eno.
Dopo i sanguinosi attentati terroristici del 2001, il titolo di Bowie sembra oggi poter essere invertito: sono gli americani ad essere vittima di un crescente senso insicurezza e paura.
La “paura” degli americani rispetto alle minacce esterne ha portato molte e molto dibattute conseguenze, sul piano delle relazioni internazionali, delle libertà individuali e anche della tecnologia.
Prendo spunto dalla lettura di un post apparso il 23 Agosto sul famoso blog thelongtail.com, per porre un problema che credo avrà qualche peso nei prossimi decenni. Il blog è curato da Chris Anderson, celebre editor-in-chief della rivista Wired, che lo ha inaugurato per esplorare un tema che sarebbe poi divenuto oggetto del suo libro, The long tail. Senza dilungarmi troppo sul libro in questione, alla cui lettura invito tutti coloro che s’interessano dei trend che governano il mercato nell’era di Internet, desidero sottolineare che il blog di Anderson ha un taglio molto elevato ed è ottimamente frequentato e commentato.
Il post in questione tuttavia, mi è balzato agli occhi fin dalla lettura del titolo: Can Open Source be giving comfort to the enemy?
L’argomento trattato riguarda gli UAV (Unmanned Aerial Veichles), anche detti droni: aeroplani a controllo remoto o a conduzione autonoma, alla cui costruzione amatoriale Anderson dedica un sito. Gli UAV, oltre ad essere oggetto della passione di molti modellisti, quando adeguatamete equipaggiati di tecnologie militari, vengono usati in missioni ad alto rischio: per questo sono oggetto di cospicui investimenti da parte dell’aeronautica militare di tutto il mondo. Il titolo del post fa riferimento ad una circostanza che qui sintetizzo: in un gruppo dedicato alla costruzione di UAV, a cui Anderson partecipa mettendo a disposizione liberamente le sue conoscenze, un iraniano di nome Amir Aalipour (che si scoprirà in seguito avere 17 anni), posta orgogliosamente la foto di un suo prototipo, decorato con i colori della bandiera iraniana. La reazione di Anderson, candidamente documentata nel suo post, è quella che al post dà il titolo: è possibile che il frutto delle mie ricerche, che io pubblico liberamente, possa essere sfruttato contro l’esercito del mio paese da parte di un potenziale nemico (da tempo l’Iran appartiene alla celebre lista degli “stati canaglia”)?
Non intendo con questo intervento privare di legittimità la preoccupazione di Anderson, che del resto molti suoi connazionali mostrano di condividere nei commenti. Mi fa piuttosto riflettere sulle ripercussioni che la situazione internazionale attuale potrebbe ottenere sullo scenario tecnologico: un ambito in cui i concetti di condivisione e collaborazione, da molto prima che le logiche proprietarie divenissero dominanti, hanno motorizzato l’innovazione, ponendo le basi per fenomeni rivoluzionari come il software libero e, per l’appunto, l’open source.
Lo stesso Anderson ammette la parziale irrazionalità del suo timore: gli “stati canaglia” già dispongono di armamenti avanzati ed è pur vero che molte tecnologie potenzialmente utilizzabili a scopi militari, sono difficilmente suscettibili di restrizione d’uso.
Volendo aggiungere un’ulteriore critica all’approccio di Anderson, si potrebbe affermare che non basta far volare un drone per avere un aereo spia e che, probabilmente, la tecnologia di più difficile accesso è quella che riguarda “gli occhi” dei droni, non le ali.
Con un pizzico di polemica si potrebbe poi argomentare che la tecnologia militare, anche quella più avanzata, è ampiamente disponibile sul mercato, tanto che molti produttori di armamenti fanno fortuna esportandola globalmente, più o meno alla luce del sole: anche in stati governati da soggetti poco raccomandabili.
La questione è dunque se la paura di favorire il nemico sia un buon motivo per creare degli embargo tecnologici, e quali conseguenze tali embargo possano portare sul mondo della tecnologia, in particolare pensando a quei paesi che sono maggiormente colpiti dal digital divide. Di converso, spostando l’indice dal mondo “open” al mercato, è un’altra la domanda che viene in mente: è meglio privilegiare il fatturato delle aziende che producono tecnologia o viceversa frenarle davanti alla ragion di stato?