Oggigiorno siamo abituati a console che esulano dall’ambito per cui sono state create e si trasformano in qualcos’altro. Ma quindici anni fa il panorama era ben diverso ed il mercato per quanto fosse interessato a soluzioni poliedriche, forse non era pronto a recepirle. Ed infatti abbiamo già visto quale fu la sorte di approcci “multimediali” quali il Philips CD-I.
Il Playdia era qualcosa di ancora diverso. Era il tentativo concreto di utilizzare il videogioco come strumento educativo.
Come ormai quasi una prassi, cerchiamo di contestualizzare il periodo.
Siamo nella prima metà degli anni ’90, a cavallo tra quella che viene considerata la quarta generazione (MegaDrive, SNES) e la quinta (3DO, Saturn, PSX). In Giappone c’è un gran fermento intorno a queste nuove tecnologie e i tre grandi del settore (Sega, Sony e Nintendo) sono in piena corsa per rilasciare i rispettivi nuovi prodotti.
Allo stesso tempo però si era fatta strada l’idea che un oggetto ormai sempre più presente nei salotti delle famiglie fosse adatto anche a qualcosa di più del semplice divertimento, uno svago mirato all’apprendimento.
Bandai (che ricorderete anche come attore nella vicenda Apple Pippin), storico marchio di giocattoli made in Japan aveva intravisto questa possibilità e svilippò per proprio conto una macchina ad hoc, il Playdia.
La dotazione hardware seppur lo fornisse di lettore CD-ROM e joypad a infrarossi non era eccelsa tanto che i dirigenti optarono per una CPU a 8 bit, diventata chiaramente obsoleta già all’epoca.
Ma l’intento non era certo quello di far meravigliare i ragazzi di fronte a milioni di poligoni roteanti sullo schermo, come dimostra la stessa soft-teca della macchina.
Dal 1994 infatti, anno di uscita al 1996, anno di dismissione, furono prodotti circa venticinque titoli che spaziavano dagli immancabili Gundam e Dragonball a lezioni di hiragana tenute dai personaggi di Sailor Moon, voice training con sessioni di pronuncia ed alfabeto fino ad arrivare alle Enciclopedie Newton.
Fu una console che non ebbe un grosso impatto di vendite (e per questo diventata un pezzo piuttosto ricercato nel panorama collezionistico) e che mai varcò i confini della terra nipponica eppure, se oggi esistono console con cui navigare in Rete, allenarsi nella matematica e che non sono più considerate “cose per bambini” lo dobbiamo anche a questi prodotti, spesso fallimentari ma frutto di idee innovative.