*Scritto a 4 mani, in collaborazione con Francesco Carucci*
Tullio De Mauro, famoso linguista ed ex ministro della Pubblica Istruzione l’aveva detto, sorprendendo un po’ tutti.
La contaminazione dell’inglese e della terminologia informatica è benefica perché rende la stessa lingua italiana più viva e più dinamica. D’altra parte se ci si pensa bene la lingua non è che lo specchio di una società; e nel mondo di oggi, così multietnico e multiculturale, non si può pensare allo strumento di espressione di una nazione (o più nazioni) come un compartimento stagno rispetto agli altri.
Ma a tutto c’è un limite. Cambiamento e contaminazione non vuol dire che occorre snaturare improvvisamente quelli che sono i principi assodati in secoli di trasformazione di usi, costumi e quindi della lingua stessa.
Facciamo un esempio. Il termine straniero è in generale un invariante, per cui, quando vogliamo riferirci a quantità, il suo plurale sarà identico al singolare. Non esistono i “threads” o i “developers”. Un thread, i thread. Un developer e i developer. Che cosa c’entra la “s” plurale anglosassone nella grammatica italiana? Nulla.
L’esigenza di rispettare il plurale dei termini stranieri, ad esempio non è un esercizio fine a sè stesso, ma una necessità nel mondo della comunicazione, dove il ricevente del messaggio deve essere messo nelle condizioni migliori possibili per comprendere il contenuto informativo che viene trasmesso. Fare il plurale scorretto di un termine straniero non è solo cacofonico, ma crea un piccolo problema in più al momento della comprensione del messaggio. Un piccolo problema sommato ad un altro piccolo problema, e l’informazione è velocemente travisata, con tutti i danni che ne possono scaturire.
E riguardo al linguaggio mutuato direttamente dalle chat? Ne vogliamo parlare?
Non ne parleremmo, perché vedere ragazzini e non, scrivere il loro pensiero infarcendo le parole di k ci fa girare il sangue al contrario. La giustificazione tipica è“Ma kosì skrivo più velocemente”. Non è vero, i caratteri non costano in Internet, si possono usare liberamente e abbondantemente per esprimersi in maniera comprensibile. Anzi, è provato che questo stile di scrittura diminuisce enormemente la facilità di lettura, quindi la comprensione del testo. E non rende neppure lo scrittore più figo.
Con queste osservazioni non stiamo certo dicendo di riferirsi all’Accademia della Crusca o che gli articolisti di Appunti Digitali in realtà sono gli autori del Devoto Oli. Ci mancherebbe.
E i post dimostrano il contrario: ci sono refusi, errori che in fase di revisione della bozza sfuggono, com’è normale che sia e come avviene anche in strutture giornalistiche decisamente più complesse e dal budget di ordini di grandezza superiore.
Ma tra la svista e l’errore in buona fede e l’uso cosciente di parole o espressioni che impoveriscono l’italiano stesso (che spesso non ha bisogno di ricorrere a costrutti “ostrogoti” per esprimere un concetto in modo chiaro e conciso) passa molta differenza.
Anche voi nelle vostre navigazioni quotidiane sentite il bisogno di abbracciare ogni tanto il vostro Garzanti o Zanichelli preferito oppure siamo noi che soffriamo in qualche modo di nostalgia e viviamo in un contesto che, per certi versi, non è più quello desiderato?