750.000 posti di lavoro persi. Da 200 a 250 miliardi di dollari di danni economici al settore. È l’apocalisse? I frutti dell’attuale crisi economica? No: sono le cifre che l’industria della produzione di contenuti sventola da anni, ogni qual volta si debba far pressione sul governo per invocare ulteriori restrizioni alla libertà degli utenti per la protezione della proprietà intellettuale.
Bene, un’indagine di ArsTechnica dimostra che sono completamente campate in aria. Nella migliore delle ipotesi poco aggiornate e calcolate in modo da divenire opportunamente catastrofiche.
Adesso io non vorrei partire col solito post da quattro soldi in cui tutti ci uniamo in un biasimo corale per l’industria e giù pernacchie, maledizioni, insulti e via discorrendo. La produzione di contenuti va remunerata, su questo non ci piove.
Il punto è che le attuali rivendicazioni politiche, truffaldine a quel che si apprende, non nascono a tutela di un mercato che minaccia di scomparire:
nascono a tutela di un sistema che rischia di scomparire, e molti se lo augurano, perché reso inattuale dai nuovi media; un sistema perlopiù incapace di reagire al progresso dei modelli distributivi con altri strumenti se non la battaglia legale.
Nascono dunque a tutela di soggetti cui una generale retrivia ha guadagnato la progressiva marginalità nel mercato, a vantaggio di chi prima e meglio ha capito le potenzialità della rete.
A rimanere, abbarbicati sulle proprie posizioni, sono soggetti che hanno molto danaro e che dunque possono finanziare campagne elettorali, movimenti politici, organizzazioni “benefiche”. Soggetti che però non sono affatto indispensabili – non almeno quanto vorrebbero far credere – in un sistema che va ristrutturandosi attorno alla distribuzione online.
Soggetti che tra l’altro, come abbiamo raccontato qualche tempo fa, agiscono seguendo logiche non necessariamente coerenti con gli interessi di chi i contenuti produce.
Alla fine ho tradito i miei propositi e ho scritto il solito rant. Spero non me ne vorrete: se non altro vi invito a leggere l’articolo linkato per capire fino a che punto le cifre citate a ripetizione dall’industria discografica americana sono inesatte, arbitrarie, gonfiate.
Scoprirete che, per esempio, la storia dei 750mila posti di lavoro perduti, risale a stime del 1986, che tra l’altro parlavano di un range che partiva dalle 130.000 unità.