Nelle scorse settimane, se vi ricordate, abbiamo già messo al loro posto alcuni dei tasselli che compongono il complicato panorama della prima metà degli anni ’90.
L’industria dei videogiochi ha preso coscienza della propria forza e sta cercando nuove vie per divertire e coinvolgere l’utenza.
Formalmente siamo nella quarta generazione di console (quella del Sega MegaDrive e del Super Nintendo, tanto per capirci), ma già si sta ovviamente lavorando alle macchine future.
Una delle tecnologie su cui in molti puntarono ed investirono le proprie energie fu il CD-I. Dalla sigla si può facilmente intuire come fosse un’estensione del formato co-inventato e brevettato da Philips e Sony nel 1986.
Il nuovo standard, Compact Disc Interactive (o Green Book, se si vuole usare il codename del libro che elencava tutte le sue specifiche) avrebbe dovuto innalzare il livello di partecipazione dello spettatore attivo/giocatore, mantenendo la retrocompatibilità per gli altri formati digitali utilizzati in quel periodo.
Le premesse sembravano buone così come i nomi scesi in campo per spingere questa tecnologia garantivano una certa sicurezza. Quindi che cosa andò storto?
Cerchiamo di contestualizzare prima gli avvenimenti.
Siamo nel 1991, lo stesso anno in cui si affacciavano altri esperimenti di console multimediali: c’era il LaserDisc (anche se faceva un po’ storia a sé), il Sega Mega CD ovvero l’addon del MegaDrive e il NEC PC Engine TurboGrafx-16. Quasi tutti gli operatori del settore intuiscono le potenzialità del supporto ottico in prospettiva futura, non solo per le alte capacità di memorizzazione ma per la maggior versatilità di utilizzo rispetto alla cartuccia.
In questi anni verrà sviluppato infatti il 3DO, l’Amiga CD32 ed una serie di altri prodotti rimasti unreleased o che varcarono la soglia delle fabbriche in lotti di poche migliaia di unità.Si intuiva quindi che il materiale su cui lavorare c’era (e forse era anche troppo) ma probabilmente i tempi non erano ancora maturi; si era voluta una transizione troppo rapida dai fasti, non ancora conclusi, delle avventure portate da coin-op a schermo televisivo.
Cercando quindi di coniugare il digitale (che rappresenta la multimedialità) con il lato ludico si finiva per lanciare sul mercato dei prodotti monchi che non erano né vere e proprie macchine dedicate ad esempio all’hi-fi e all’intrattenimento cinematografico ma neanche vere e proprie console perché il parco giochi nella quasi totalità dei casi latitava, con una manciata di titoli che meritava di essere comprata.
Siamo in questo periodo dunque, il periodo in cui si sono registrati la maggiorparte dei fallimenti di progetti legati all’industria dei videogiochi (dopo la crisi nera degli anni ’70) e che ha segnato la fine del ruolo di attore per buona parte dei brand storici famosi nel settore dell’Entertainment in generale.
Philips sarà il marchio che si impegnerà di più nella riuscita del progetto e in circa sette anni produrrà quattro linee di lettori CD-i, tra cui la serie 600, interessante perché fondeva elementi del personal computer (come tastiera e floppy disk) ed era rivolta ad un pubblico di sviluppatori oltre che utenti occasionali, perché consentiva anche di interfacciarsi con tool di emulazione e debug esterni.
Nel 1998 si decise per lo stop alla produzione che conta ad oggi poco più di mezzo milione di unità vendute in tutto il mondo.
Quel che sorprende è che nonostante il successo sia stato scarso e nonostante non sia affatto un pezzo ricercato tra i collezionisti ed appassionati di retrogaming, la comunità di sviluppatori homebrew sia invece molto attiva.
Lo dimostra Frog Feast, un gioco sviluppato con la collaborazione di Oldergames, basato sul classico senza tempo Frog Bog.
Forse, se la stessa passione e lo stesso impegno (oltre che pianificazione) fossero stati profusi ai tempi dai CEO dell’epoca, avremmo avuto un finale diverso. Forse…