In questi giorni si è molto parlato, soprattutto (e solo?) nella blogosfera, del disegno di legge c.d. Levi-Prodi. Senza entrare troppo in tecnicismi è sufficiente sottolineare che il problema di fondo è che il testo è stato scritto male, e lascia spazio a dubbi interpretativi.Si stabilisce infatti che tutti i soggetti che esercitino attività editorale sono tenuti all’iscrizione nel Registro degli Operatori di Comunicazione, con tutti i relativi gravosi oneri. Dato che, la stessa legge, definisce come prodotto editoriale qualsiasi prodotto contraddistinto da finalità di informazione, formazione, divulgazione e intrattenimento è del tutto evidente che anche i blog rientrano nella definizione di prodotto editoriale.
Per cercare di mettere una “pezza” a questo attentato alla libertà di parola, il signor Levi ha aggiunto un comma che escluderebbe dall’iscrizione al Registro i “siti personali o ad uso collettivo che non costituiscono un’organizzazione imprenditoriale del lavoro”. Dalla padella alla brace, di male in peggio. Cosa si intende per organizzazione imprenditoriale del lavoro?
Sul mio blog personale ho un box AdSense e guadagno qualche decina di dollari all’anno. Sono un imprenditore? Dove tracciare la linea di confine tra blog espressione di attività professionale a scopo di lucro e quello puramente personale? Il comma aggiunto, se vogliamo, peggiora la situazione anziché migliorarla introducendo nuovi elementi di dubbio e di confusione.
Questa vicenda ha prodotto forti reazioni non solo nella blogosfera italiana, ma anche e soprattutto nella stampa estera, che non ha perso l’occasione per sbeffeggiarci e deriderci. Secondo me gli aspetti più inquietanti di questa vicenda sono essenzialmente due.
Primo: Viene minata alla base la libertà di parola e di espressione del pensiero, cosicché chiunque voglia condividere col mondo un proprio pensiero viene “bloccato” da vincoli burocratici. E’ chiaro che una legge del genere, anche se approvata, sarebbe del tutto inapplicabile all’atto pratico, ma è un grave segnale lanciato dalla classe dirigente che dimostra di essere ancorata ancora a vecchi schemi che vuole campalinisticamente proteggere e tutelare, anzichè aprirsi al progresso favorendo l’innovazione.
Da qui si arriva al secondo punto, cioè al fatto che questa proposta di legge è l’ennesima dimostrazione di come chi oggi comanda nel paese cerchi in tutti i modi di ancorarci al passato soffocando il presente. E’ evidente che si tratta di una legge che strizza l’occhio ai media tradizionali che, anzichè reinventarsi e lanciarsi essi stessi per primi nei nuovi media (come accade all’estero), si chiudono in un modello di business ormai destinato a cambiare definitivamente.
Fino a quando non avverrà una radicale rivoluzione culturale che cambi le menti della gran parte della classe dirigente e fino a quando sangue nuovo e fresco non sarà immesso nel motore decisionale del paese, temo che l’Italia sarà inesorabilmente destinata a proseguire il trend di declino al quale tristemente assistiamo da decenni.