Da sempre, ma particolarmente di questi tempi, su Apple se ne sentono dire di tutti i colori, pro e contro. La questione hackintosh continua a tenere banco e, in attesa di nuovi colpi di scena dal fronte Psystar, molti si interrogano sulla vicenda dei cloni Mac.
Un intervento, non proprio recente ma molto attuale, mi ha colpito al riguardo: secondo Jeff Atwood di codinghorror.com, il Mac altro non è che un dongle, che abilita l’esecuzione delle applicazioni Apple.
Anche detto chiave hardware, il dongle è un disposivo connesso al computer che abilita l’esecuzione di un programma, al fine di proteggere lo sviluppatore dal pericolo derivante dalla copia. Senza dongle il programma non gira: il parallelo con la piattaforma chiusa è quindi tosto ma non del tutto campato in aria.
Se il Mac altro non è se non un dispositivo che limita la libertà di fruizione di un software – si chiede l’autore – perché a nessuno importa nulla di questa limitazione?
Queste per sommi capi le obiezioni di Atwood, che, riprendendo la definizione dello switcher Mac -> Linux Mark Pilgrim, definisce la questione nei termini di freedom zero e non smette di sorprendersi del fatto che gli utenti valutino così poco la loro libertà.
La libertà in effetti è una di quelle cose che si notano solo quando non ci sono, e comunque, come si suol dire, raramente si la si preferisce alla comodità. Il che ci porta dritto dritto alla questione della user experience, da sempre cavallo di battaglia di Apple.
È con la user experience che Apple ha ritagliato un fiorente mercato musicale online nel mare magnum della “pirateria”, è con la user experience che ruba manciate di clienti a Microsoft, la quale con Vista guardacaso muove passi decisi nella stessa direzione – e non parlo solo dell'”eye candy”. La user experience sarà una trappola, ma mi consente di fare il mio lavoro in un modo efficiente ed appagante. In teoria funziona, in pratica, credo, pure.
Il valore della user experience per ampliare l’appeal di un OS, lo hanno capito anche sul fronte Linux: l’interfaccia Gnome concede molto al piacere dell’occhio mentre distribuzioni come Ubuntu sono appositamente mirate a rendere ogni singolo passaggio dell’uso del computer quanto meno traumatico possibile.
Davanti all’ineluttabilità del protagonismo della user experience, valgono a poco i lamenti di tanti sacerdoti integralisti del free software, che magari si sono messi in mente che nel loro computer non dev’esserci neppure una riga di codice proprietario.
Non tutti sono disposti ad abbracciare l’OS che utilizzano come una missione di vita, o dedicargli un tempo di apprendimento/soluzione di problemi imprevisti che inevitabilmente viene sottratto all’operatività. Particolarmente in un momento in cui il PC, alla pari della lavatrice e del microonde, è divenuto una commodity, un bene che attiene al mercato di massa.
Tra l’altro, il modello di integrazione verticale hw/sw – ferocemente contestato dall’articolo citato per quanto riguarda Apple – diventa fondamentale per migliorare la user experience dell’OS del pinguino, e farne un’alternativa papabile a soluzioni proprietarie.
In questo senso la strada imboccata da eeePC e da Dell offre all’utenza generalista una soluzione il più possibile indolore per la migrazione. Innanzitutto perché la stragrande maggioranza degli utenti acquista l’OS in bundling con l’hardware, il che rende lo switching verso OS diversi da quello preinstallato una scelta per definizione in controtendenza, e quindi minoritaria. Il bundling di Linux, viceversa, crea per gli utenti ottime occasioni per provare e magari affezionarsi.
Poi perché la preinstallazione dell’OS garantisce a priori l’assenza di quei piccoli e grandi problemi di compatibilità che possono intralciare la via della migrazione.
Un assunto sembra poi stare alla base delle obiezioni di Atwood: il software Apple è limitato al solo hardware Apple, mentre lo si vorrebbe utilizzabile su qualunque piattaforma. Il valore aggiunto di Apple è dunque nel software, mentre l’hardware è lì solo per gravare i costi finali e arricchire il bilancio dell’azienda di Cupertino?
Non proprio. Nel caso di una piattaforma chiusa quella fra hw e sw è una sinergia non facilmente decifrabile. E comunque, se l’operatività è l’obiettivo che si pone chi acquista un computer, l’integrazione verticale è benvenuta perché abbatte il peso degli imprevisti.
Torniamo dunque alla questione nodale: in quanti sono disposti a cambiare la libertà assoluta con la comodità di avere un dispositivo che, similmente a una console o ad un frigorifero, si accende e funziona? In altri termini, di questa libertà quanti hanno realmente bisogno?
Di libertà, semmai, ne servirebbe un po’ di più sul fronte dell’interoperabilità delle applicazioni e dell’apertura dei formati: in questo caso però la campana suona per tutti.