Basta porre in condivisione un file, anche senza trasmetterlo a terzi, per essere accusabili di distribuzione non autorizzata di opere protette. È questa la tesi emersa nel celebre processo Capitol Records, et al VS Jammie Thomas, in un parere espresso in merito dalla MPAA.
Per il medesimo processo, qualche tempo fa ci occupammo del parere di Jennifer Pariser, avvocato della Sony BMG, secondo cui la semplice copia per uso personale di un album regolarmente acquistato, rappresenta un modo carino di affermare che [si sia rubata] una sola copia.
Qualche mese fa la signora Thomas è stata condannata in primo grado al pagamento di 9250 dollari per brano condiviso, per un totale di 222.000 dollari, nella totale assenza di prove che dimostrassero la trasmissione di quei file verso terzi.
Il giudice Davis, dopo la sentenza, ha tuttavia ammesso un possibile errore di metodo, e ha invitato le parti in causa e altri soggetti competenti in materia, ad esprimere un parere.
In questa occasione la MPAA, omologa cinematografica della RIAA, ha espresso un’opinione che conferma la ratio della sentenza precedente: anche nell’impossibilità di provare l’effettiva distribuzione, basta la condivisione a giustificare una condanna per distribuzione illecita di materiale protetto.
La questione descritta rappresenta un punto cruciale nella lotta fra detentori di diritti e utenti di sistemi di file sharing: la tesi dell’equivalenza fra condivisione e distribuzione consentirebbe la chiusura in direttissima dei processi contro i file sharer. D’altro canto lo stesso Copyright Act carica l’accusa della prova dell’effettiva distribuzione.
La strada che porterà alla risoluzione di questo caso appare ancora molto lunga. È però ormai assodato che soluzioni e metodi proposti dai detentori di diritti, oltre che ad andare contro il buon senso fino a sfiorare il ridicolo, implicano delle forzature molto problematiche sul sistema giudiziario.
Fonte: Ars Technica